Pranzo a Lettere 15 Marzo

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Assemblea a Storia Lunedì 14/03 ore 15:00


Negli ultimi mesi e settimane come Collettivo di Lettere e Filosofia abbiamo partecipato al processo di adeguamento degli ordinamenti didattici (cioè dei piani di studio) al decreto ministeriale 17 nelle commissioni e nei consigli, sia a livello di corso di laurea che di facoltà. Le norme contenute nel decreto introducono requisiti di vario genere ma comunque molto rigidi, necessari per procedere all’attivazione dei corsi di laurea.

La nostra partecipazione è stata attiva e al contempo critica. Questo perché il processo di adeguamento ha tenuto conto di altri due provvedimenti governativi in via di attuazione (la più generale riforma Gelmini dell’università e le nuove norme in materia di abilitazione all’insegnamento nelle scuole medie e superiori), ma anche e soprattutto perché il decreto 17, con il suo gelido lessico burocratico, non ci è parso neutro politicamente. Infatti crediamo che le crescenti rigidità a livello degli ordinamenti, i frequenti mutamenti a livello normativo per un verso e i continui tagli economici dall’altro siano due facce della stessa medaglia; siano due strumenti diversi, ma tesi allo stesso fine, quello di trasformare l’università pubblica, di massa e di qualità in un sistema di formazione molto più differenziato, privatistico e funzionale a esigenze economiche.

Riteniamo quindi che sia doveroso e fondamentale un momento assembleare con tutti gli studenti del corso di laurea di storia e geografia (ma sono invitati tutti gli studenti della facoltà visto che le problematiche appaiono simili ovunque) per informare circa i cambiamenti dei piani di studio, per discutere della loro portata e dell’atteggiamento che come soggetto studentesco dobbiamo tenere rispetto a essi.

ASSEMBLEA DI CORSO DI LAUREA

LUNEDI’ 14 MARZO ORE 15 NEL CORTILE ESTERNO DI STORIA
(in caso di maltempo l’assemblea si svolgerà in aula 22)

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Collettivi studenteschi: quale futuro?

La nostra militanza e il nostro impegno nell’università e nei movimenti sociali in genere è nata, o è stata rinnovata, dal movimento dell’Onda di due anni e mezzo fa. Per iniziare una riflessione sull’organizzazione delle lotte e dei movimenti studenteschi ci sembra d’obbligo partire da questa, esaltante ma contraddittoria, esperienza.

Quell’insorgenza seppe per qualche mese squarciare l’asfittica atmosfera di rassegnazione e sconfitta che impregnava da qualche anno i nostri atenei come le nostre piazze; rimise all’ordine del giorno la gioia dell’impegno e della lotta collettiva; mise in campo numeri considerevoli, ma sicuramente peccò di inesperienza e ingenuità.

In pochi mesi consumò le sue energie, ma al tempo stesso seppe sviluppare rapidamente pratiche diversissime, tanto diverse da apparire alla lunga inconciliabili: gli stessi militanti, spesso alle prime armi e dalla politicizzazione alquanto approssimativa, passavano nell’arco di poche ore dalle lezioni in piazza ai cortei selvaggi, dalle occupazioni e dal confronto con le forze dell’ordine alle grandi sfilate romane. Questa pluralità dissonante delle pratiche corrispondeva anche a ideologie, parole d’ordine e, verrebbe da dire, concezioni del mondo altrettanto dissonanti e plurali che popolarono quel momento di impegno collettivo forse confondendosi le une con le altre, ma senza mai amalgamarsi fino in fondo.

Alla base di tutto stava una dialettica fra conflitto e manifestazione del dissenso che non fu mai sanata in quei mesi: non ci furono vincitori e vinti in quel confronto che serpeggiava nei momenti di discussione fra le realtà in lotta, vero e proprio convitato di pietra negli estenuanti momenti assembleari. A sancire la sconfitta di entrambe arrivò troppo presto il declinare della partecipazione e il ritorno alla calma.

Quest’autunno le università sono ridiventate palcoscenico dove inscenare conflitto, ma con modalità, contenuti e parole d’ordine molto differenti rispetto a due anni fa’. Rispetto al passato, per dirla molto sinteticamente, si è avuto sicuramente una minore partecipazione, sia nelle facoltà che negli appuntamenti di piazza, ma anche una maggiore politicizzazione, con assemblee meno sfrangiate e più consapevoli della posta in gioco della riforma Gelmini e anche dei metodi necessari per opporvisi. Per essere ancora più chiari, quest’anno abbiamo avuto cortei con qualche centinaio di partecipanti a Firenze (un dato ridicolo rispetto alle maree di due anni fa), ma anche una consapevolezza incomparabile, un’idea di militanza precisa, una prontezza nell’affrontare la conflittualità (un dato rispetto al quale sarebbero le esperienze di due anni fa ad apparire ridicole).

Appurato questo aspetto, senza per questo dare giudizi di valore, non crediamo che il confronto fra i due movimenti si possa sbrigare in queste quattro frasi, in questa dicotomia fra bianco e nero, così all’apparenza chiara. Ci sembra invece che questo dato dovrebbe fare riflettere molto. Questo perchè ci pare semplicistico privilegiare o esclusivamente l’aspetto della conflittualità o l’aspetto della partecipazione, come se questi due piani possano procedere separati l’uno dall’altro.

Davvero si può credere che la partecipazione di per sè possa bastare a incidere sulle realta? Davverò si può credere di non alimentare la confusione ideologica facendo marciare accanto senza un chiarimento preliminare le bandiere del merito e dell’uguaglianza? Ma al tempo stesso si può pensare realmente che il conflitto supplisca alla necessaria analisi delle opportunità politiche che ci troviamo ad avere un po’ come un vestito buono per tutte le stagioni? Si può non contemplare il dato della partecipazione perchè orgogliosi della propria intransigenza politica senza capire il problema delle “radici” obbligatorie del conflitto?

Il nostro personale punto di vista è che partecipazione e conflitto non possano essere disgiunti più di un tanto, che siano elementi complementari dell’azione politica. Il conflitto è la manifestazione esteriore dell’azione politica, ciò che dà visibilità e cementa l’appartenenza, ciò che consente il mutamento reale dei rapporti di forza; ma d’altra parte la partecipazione rappresenta le radici dell’azione politica, ciò che consente la sua incisività al di là dell’aspetto meramente testimoniale. Crediamo insomma che il cuore dell’azione politica, almeno per le situazioni in cui ci troviamo ad agire, sia rappresentato proprio dal compromesso, meno al ribasso possibile, fra l’istanza della partecipazione e quella del conflitto; un compromesso che ovviamente porterà a sacrificare qualcosa, ma che consentirà il reale avanzamento delle nostre lotte.

Riteniamo inoltre l’aspetto organizzativo, rappresentato dal collettivo (sia esso universitario, politico o sociale), un elemento centrale per l’economia delle nostre lotte e anche una questione da non nascondere al fine di inseguire chimere orizzontalistiche. Due anni fa ciò che frenò l’Onda fu anche e soprattutto il vizio tutt’italiano di rifiutare acriticamente ogni forma di organizzazione delle lotte, che necessariamente deve contemplare anche forme seppur minime di delega e di votazioni.

Riteniamo il collettivo lo strumento con cui valorizzare al massimo l’unione di radicalità e partecipazione, la “medicina” con cui curare due disturbi ricorrenti, opposti ma simmetrici, all’interno dello spazio politico universitario: per un verso l’isolamento delle tematiche universitarie dal quadro sociale che le circonda e le domina, dall’altra la formazione di nuclei ristretti di militanti politici scarsamente attenti alle possibilità di allargare le lotte agli studenti meno o per niente politicizzati.

Per far sì che sia medicina incisiva però bisogna che il collettivo assuma una natura specifica: una natura che ritrovammo espressa, secondo noi in modo molto efficace, proprio due anni fa in un appello nazionale che alcuni collettivi della Sapienza lanciarono sotto la forma di 12 tesi sull’università. Una delle tesi recitava così:

“11) I collettivi studenteschi: Per portare avanti i processi di sabotaggio della fabbrica è necessario evitare che ad ogni mareggiata si debba ricominciare tutto daccapo: pensiamo che i collettivi siano la miglior forma di organizzazione dal basso che, all’interno di ogni facoltà e ogni ateneo, possano favorire processi di autorganizzazione e di movimento. Per questo pensiamo che si debbano costruire collettivi ovunque, ossia delle strutture studentesche permanenti, orizzontali, democratiche, che diano continuità e solidità al processo di autoriforma dell’università, dotandosi di progettualità e strumenti di lavoro che, a differenza della pura assemblea, vanno oltre le fasi di movimento. Dei luoghi di incontro, discussione, elaborazione e condivisione di bisogni degli studenti e delle studentesse, in grado di affrontare anche il tema spesso rimosso dell’oppressione di genere. Abbiamo bisogno di organizzazioni radicalmente diverse dalle strutture burocratiche spesso rappresentate anche da alcuni sindacati studenteschi; di strutture di base, aperte, con l’unica finalità di costruire partecipazione e movimento, che fondano nella pratica delle assemblee di facoltà il proprio agire, la propria capacità di tendere a momenti di autorganizzazione vera e propria, ossia capaci di cedere totalmente sovranità al movimento e alla sua autorganizzazione nel momento in cui essa si dispiega.” (12 tesi sull’Università)

Crediamo, in altre parole, in collettivi che vivano saldamente dentro l’università, che attraverso vertenze intermedie siano capaci di politicizzare tanti studenti attraverso la costruzione della consapevolezza critica dei rapporti stretti esistenti fra formazione e società, ma che pure si impegnino attivamente e convintamente nelle lotte esterne all’università con un interesse primario per quelle antifasciste, antirazziste e di sostegno ai diritti dei lavoratori. Riteniamo inoltre che i collettivi trovino la propria forza nella loro natura meticcia, nel loro comporsi di studenti provenienti da varie aree politiche, nell’incontrarsi al loro interno fra studenti già politicizzati e studenti per niente politicizzati.

Ciò che è successo durante la mobilitazione dell’autunno/inverno purtroppo ha teso a procedere in una direzione diversa: le iniziative assembleari e i momenti di piazza sebbene denotassero una maggiore coscienza e consapevolezza dei contenuti politici delle questioni hanno visto un calo massiccio della partecipazione; la fiducia e il consenso della massa degli studenti nei confronti dei collettivi sembra in calo (non sono i militanti a tempo pieno a essere in diminuzione, anzi, ma si sta riducendo quello spazio di studenti simpatizzanti nei confronti delle azioni dei gruppi politici); si assiste alla crisi del collettivo di facoltà, necessariamente meno omogeneo politicamente, ma più legato al “territorio”, e al parallelo rafforzamento di formazioni interfacoltà con un profilo identitario più chiaro e una maggiore capacità “politica”.

Riteniamo che le conseguenze di questa tendenza, nel lungo periodo, siano pericolose: i collettivi universitari, che in alcune facoltà già sembrano in sofferenza, numerica e non, rappresentano non soltanto il cuore pulsante delle lotte negli atenei, ma anche una fondamentale riserva di ossigeno per le lotte sociali in genere. La loro scomparsa o la loro trasformazione in soggetti politici tout court spesso scarsamente interagenti con il resto della comunità studentesca ci pare un’eventualità da scongiurare in ogni modo.



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Breve storia delle riforme universitarie

Prima della Gelmini: breve storia dell’università italiana

Autonomia finanziaria e didattica, processo di Bologna e seguente riforma del 3+2, percorso a ipsilon, legge 270, riforma Gelmini nelle sua varie forme: dietro a queste denominazioni neutre si nascondono privatizzazione dell’università, tagli selvaggi al finanziamento statale, aumento delle tasse studentesche, smantellamento del diritto allo studio, blocchi agli accessi ai diversi livelli di laurea, svilimento della didattica. Appare pacifico che almeno dal 1989 l’università italiana sta subendo un processo di “trasformazione”. Gli esiti appaiono un po’ fumosi, ma in ultima analisi prevedibili: abolizione del valore legale della laurea, libera competizione fra strutture (perché chiamarle università?) che nel migliore dei casi privatizzeranno le eccellenze e pubblicizzeranno le perdite, rigida selezione “meritocratica” oltre lo pseudo-liceo triennale. Ma se sul fine ultimo di questo stillicidio di riforme, leggi, leggine, circolari si può ancora discutere, la tendenza di fondo di questo processo, al contrario, appare molto chiara: rendere l’università quanto più funzionale possibile alla struttura economica e sociale dominante, neutralizzarla di ogni suo possibile ruolo destabilizzante, piegarla alle di volta in volta mutevoli esigenze del mercato. Alla linea portata avanti dai tecnocrati dei vari ministeri che si sono succeduti in questi anni, dagli stimati opinionisti dei più grandi giornali italiani si è opposta la resistenza degli studenti, che hanno vissuto sulla loro pelle il quotidiano erodersi dei loro diritti, mentre la gran parte dei docenti hanno optato per una difesa corporativa e contingente dei loro privilegi baronali, il più delle volte scendendo a compromessi con i vari ministeri, magari dopo aver cavalcato strumentalmente il dissenso studentesco. Un veloce sguardo su questi ventanni di riforme universitarie può essere eloquente.

L’autonomia finanziaria del ministro Ruberti fu un primo passo per mutare gli assetti fondamentali dell’università italiana pericolosamente poco funzionali rispetto alle esigenze del sistema economico che viveva nel frattempo un processo di radicale cambiamento di paradigma. La natura della formazione superiore era segnata in misura ancora molto forte dal compromesso a cui ventanni prima docenti e governo erano stati costretti a scendere dall’inarrestabile movimento studentesco che, partendo proprio dalle università, era riuscito a imporre le sue istanze di democratizzazione dell’istituzione e di liberazione dei saperi. Nell’89 però la situazione era radicalmente cambiata: il fuoco della rivolta studentesca era spento da almeno un decennio, il liberismo trionfante rifiutava ogni possibilità di compromesso e ambiva a invadere con le sue logiche ogni ambito della vita umana. In ossequio alle teorie sullo “stato minimo”, Ruberti, nonostante la strenua opposizione del movimento studentesco della Pantera, riuscì a far passare la possibilità dei finanziamenti privati agli atenei ponendo le basi del disimpegno pubblico dal finanziamento e scatenando un aumento costante delle tasse universitarie. Sul naufragio dell’esperienza della Pantera pesarono zavorre che si sono riproposte, a volte anche aggravate, pure nei movimenti successivi fino a quello dello scorso anno: la scarsa attenzione a costruire alleanze sociali, il problema di darsi forme di organizzazione senza nascondersi dietro ai paraventi dell’autorganizzazione assembleare pura, la necessità di colmare attraverso vertenze su didattica e diritto allo studio lo iato fra il protagonismo studentesco durante i picchi di mobilitazione e i lunghi periodi di “calma” all’interno delle facoltà.

Ma intanto durante tutti gli anni ‘90 l’offensiva neoliberista nella società continuava a mietere i suoi frutti e la struttura dell’università italiana, pur con la riforma Ruberti, era troppo rigida per la nuova natura del capitalismo, a cui non serviva la standardizzazione ad alto livello della laurea quadriennale di vecchio ordinamento, ma mini-lauree professionalizzanti in cui ci fosse di tutto un po’. Allo scopo di riallineare l’università alle esigenze di un’economia che faceva del precariato il suo pilastro fu attuato il cosiddetto Processo di Bologna che intendeva uniformare i sistemi formativi dell’intero continente sul modello anglosassone prendendo come pietra angolare del sistema il credito, cioè la quantificazione del sapere. Lo strumento del credito appare totalmente estraneo a qualsiasi logica che non sia quella della mercificazione dei saperi. Il risultato dell’adesione italiana al Processo di Bologna fu la riforma Berlinguer-Zecchino del 3+2. Gli effetti devastanti dell’applicazione folle di questa legge trasformarono radicalmente l’immagine dell’università italiana. Le caratteristiche più importanti di questo sistema furono la vera e propria degradazione della didattica trasformata in uno sterile spezzatino di nozioni, la proliferazione di corsi di laurea privi di qualsiasi funzione culturale, l’introduzione di tirocini (in qualche caso vero e proprio lavoro non pagato), il boom del precariato: quello vero e proprio di una miriade di figure di docenza invisibile, e quello in cui fu costretto, in una palese palestra di vita, lo studente, alle prese con “la corsa al credito”. La legge 270, ad opera del ministro Mussi, è parsa un semplice riaggiustamento degli elementi più patologici del 3+2, priva di qualsiasi elemento di controtendenza, ma anzi foriera, almeno in alcuni settori, di pericolose conseguenze sulla struttura della didattica.

Ad oggi le conseguenze nefaste del 3+2 sono accettate da quasi tutti; ma sono servite comunque a rendere l’università una tabula rasa pronta a subire il nuovo stadio delle politiche liberiste in campo universitario, che si sono palesate attraverso l’opera del ministro Gelmini.

Il capitalismo, dopo aver occupato la produzione materiale, poggia la sua esistenza sulla sempre più cruda speculazione finanziaria e tende ad invadere con le sue logiche non solo il campo della produzione, ma anche quello della conoscenza, dei beni comuni, nonché gli ambiti fondamentali di ogni individuo: la sua formazione, la sua salute, la previdenza. L’introduzione del prestito d’onore al posto del diritto allo studio garantito dallo stato appare molto simile alla logica che sostiene l’espandersi dei fondi pensione o delle assicurazioni sanitarie private.

La privatizzazione de facto delle università procede spedita e attraverso l’istituto delle fondazioni trova forse il suo strumento finale e palese; i tagli continui mettono a rischio la stessa normale amministrazione di ogni ateneo, senza pensare ai contraccolpi che hanno su tutti quegli ambiti di ricerca che non possono ambire a strumentali finanziamenti privati.

Questo appare il quadro generale in cui si è inserito l’intervento legislativo della Gelmini che ne rappresenta al tempo stesso compimento e continuazione. Attraverso l’accentramento di tutti i poteri nelle mani di un consiglio di amministrazione con una folta presenza di membri esterni (cioè privati); attraverso la creazione del fondo per il merito e il contemporaneo taglio del diritto allo studio pubblico; attraverso l’istituzionalizzazione di figure di ricercatori a termine si assiste a un ulteriore tappa nel più generale processo di adeguamento dell’università alle esigenze del sistema economico.

Ma ancora il lavoro sull’università da parte del sistema dominante non è finito: permangono spazi di manovra, brecce attraverso il quale inserirsi; permangono ancora ambiti in cui l’offensiva da parte del ministero ha ancora da arrivare. Ancora sono da attuarsi tutti i decreti attuativi della Gelmini. Ci dovremo aspettare l’abolizione del valore legale della laurea, l’introduzione di una prova nazionale standard alla fine delle superiori che funga da blocco agli accessi ai corsi di laurea, la creazione di una rigida gerarchia all’interno del sistema degli atenei fra università di elite e di università di massa.

Proprio per questo appare fondamentale non essere colti impreparati dalla prossima mareggiata, analizzare il quadro in tutta la sua complessità, imparare dalle riforme passate e dai movimenti che l’hanno contrastate, senza mai dimenticare che la lotta potrà vincere solo quando essa incontrerà il sociale senza perdere le sue radici all’interno della quotidiana vita universitaria.

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Dalla A alla Z


Nelle prossime settimane vi ritroverete sommersi da volantini a colori, pieghevoli accattivanti, brochure in 3d, il tema saranno le elezioni studentesche per il rinnovo dei consigli di corso di Laurea, Facoltà e Organi Centrali. Il Collettivo di Lettere e Filosofia non ama le campagne elettorali, neanche quelle in piccola scala, perchè queste danno modo alle giovanili dei partiti di venire a contaminare un luogo di sapere critico ancora libero da simboli fin troppo noti.
Non approfondiremo qui i legami che ci sono tra Sinistra Universitaria e Centrosinistra per L’Università e il Partito Democratico, o quelli che intercorrono tra Centrodestra per l’Università e i fascistelli di Azione Giovani e la Lega (per gli Studenti per le Libertà sembra superfluo qualsiasi commento); riserveremo alle elezioni la prossima uscita perchè quella che per noi è una presenza funzionale e critica all’interno dei Consigli di Facoltà (sì, anche i Collettivi si candidano), si può rivelare una vittoria fondamentale per questi gruppi che l’università la vedono una volta ogni due anni. Noi non pensiamo di doverci presentare in queste due settimane ogni due anni: la nostra bacheca, le nostre iniziative, gli striscioni attaccati all’ingresso della Facoltà ci sono tutto l’anno, e questa uscita rientra nella nostra pratica di spiegare chi siamo ad ogni inizio semestre. Vogliamo cercare sempre modi diversi per esprimere ciò che siamo e i temi che affrontiamo, un discorso che in realtà è tendenzialmente infinito, perchè, come potrete vedere in questo Alfabeto, gli argomenti sono tanti, e ad ognuno dovrebbero essere riservate centinaia di pagine.

Affianchiamo ai volantini di analisi, più seri, ad uscite più ironiche, meno impegnative, e ci sembra proprio che questo elenco ricada nella seconda categoria…

21 MODI PER DIRTI CHI SIAMO

A come Antifascismo: non vogliamo sentir dire che è anacronistico, perchè mai come oggi i fascisti tornano a galla, escono dalle fogne in cui avevamo pensato di averli relegati. In realtà i fascisti in Italia non sono mai scomparsi, ma adesso hanno acquisito forza, consenso, la libertà di sfilare in piazza esibendo celtiche e braccia tese. Non basta ignorarli come sostiene qualcuno, i fascisti devono sempre sentire l’ostilità nei loro confronti. Combattiamo ogni giorno perchè questi soggetti non riescano ad entrare nell’Università dove altrimenti non potrebbero propagandare altro che discriminazione, odio e ignoranza, gli unici valori che sanno trasmettere.

B come Bologna: la città che ha dato nome al noto Processo (1999). L’obiettivo è fornire un’istruzione “funzionale allo sviluppo economico dell’Unione Europea, in sintonia con il veloce mondo globale”. Si sancisce definitivamente la funzionalità dell’istruzione allo sviluppo economico. Non serve spiegare perchè la visione di un’Università che si sviluppi seguendo unicamente le leggi di mercato non ci faccia sorridere. Questo fardello pesa ancor di più sulle nostre teste per la nostra grama condizione di studiosi di materie umanistiche; purtroppo noi creiamo solo sapere, e il sapere come ci ricorda il ministro Tremonti è destinato a non dare da mangiare a nessuno.

C come Collettivo: perchè è quello che siamo e quello in cui crediamo. La base da cui far partire le nostre lotte, il nucleo organizzativo minimo per poter creare qualcosa di concreto. Un Collettivo nasce quando delle persone che vivono lo stesso luogo cominciano a dialogare, a cercare di far confluire i propri pensieri in qualcosa di più grande. Un Collettivo non annienta l’individuo, lo fa crescere e fa sì che le sue potenzialità non rimangano inutilizzate.

D come Dittature: Quelle che finalmente sembrano traballare in nord Africa, e che vogliamo veder cadere ovunque. In principio è stata la Tunisia, con la cacciata di Ben Alì, poi Egitto, Libia e la lista si allunga se diamo uno sguardo un po’ più in là, fino allo Yemen e all’Iran. Ma le dittature non sono solo quelle dichiaratamente tali, sono dittature che devono cadere anche quelle in cui viviamo noi, i fortunati cittadini del primo mondo… “Ogni Stato è una dittatura” (A. Gramsci)

E come Ecc…: perchè 21 lettere non bastano per parlare di tutto, perchè sono rimasti fuori da questa discussione tanti argomenti che comunque non dimentichiamo. Non possiamo dare in questo spazio una lettera all’Antisessismo e ai Beni Comuni, al Capitalismo e ai Diritti, agli Esami e al Femminismo, a Gramsci e all’Hashish, a tutte le Idee, alle Lotte e al Merito, al Nozionismo e all’Organizzazione, alla Politica e alla Qualità, alla Rivolta e al Sionismo, al Tirocinio Formativo, alle Unioni di fatto, ai Valori, agli Zapatisti…

F come Foibe: un discorso inquietante, il simbolo della strumentalizzazione politica e del revisionismo storico. I morti non sono tutti uguali, e non si possono paragonare i partigiani ai repubblichini, i morti sul lavoro e i militari che muoiono con un fucile in mano. Ma d’altronde viviamo in un paese dove i funerali di stato si fanno agli alpini e a Mike Buongiorno, quando invece c’è chi muore cadendo da un’impalcatura per mantenere la famiglia con uno stipendio da fame.

G come Governo: un concetto difficile, perchè a questo nome si sono sempre affiancati corruzione e soprusi. Il concetto di governo è indispensabile in una democrazia ed imperfetto come lei. Il problema del nostro paese è che non c’è una possibilità di evoluzione sino a che il sistema che ci obbliga a scegliere tra due partiti identici non verrà smantellato. “I popoli non dovrebbero avere paura dei propri governi, sono i governi che dovrebbero avere paura dei popoli” (J. Madison).

H come H2O: l’acqua, ovvero il bene comune attorno al quale è nato un grande movimento sociale che da anni si oppone alle politiche neoliberiste del governo e delle multinazionali che pensano di poter speculare su di un bene così primario, privatizzandone la gestione; le firme raccolte la scorsa primavera, quasi 1 milione e mezzo, hanno dimostrato che si può riuscire a creare dal basso un’opposizione sociale forte, diffusa nei territori, che sappia comunicare con le persone e che possa riuscire a impedire che un diritto, l’accesso all’acqua, si trasformi in una merce; sarà quindi fondamentale riuscire a portare al voto i cittadini necessari a raggiungere il quorum, e giungere quindi ad una vittoria fondamentale per la difesa di tutti i beni comuni; per questi motivi noi sosteniamo i comitati locali in difesa dell’acqua bene comune e partecipiamo alla campagna referendaria “L’acqua non si vende”.

I come Istruzione: perchè pensiamo che sia una parte fondamentale nella formazione di una persona, e perchè viviamo in una società dove viene magistralmente affossata. I potenti si sono forse resi conto che “Un popolo ignorante è un popolo facile da governare”, e quindi si fa di tutto per dequalificarla. Si taglia sui docenti (tranne che su quelli di religione), si elimina il tempo pieno, si eliminano materie, si reintroduce il voto in condotta. Si fa di tutto per far vivere allo studente la scuola come una prigione, dalla quale sarà felice di scappare per trovare un lavoro precario e mal pagato.

L come Lavoro: il lavoro di cui abbiamo appena parlato, quello a progetto, precario, senza garanzie. Quello a cui si viene avviati già al liceo o all’Università con il tirocinio formativo. Inizialmente è stata chiamata flessibilità, ma c’è voluto poco a capire che era solo un sinonimo della parola sfruttamento. Siamo sicuri che la schiavitù sia stata veramente abolita?

M come Migranti: Possiamo decidere quali prendere ad esempio: quelli che oggi vengono in Italia sui barconi, e che scappano da paesi dove non hanno un futuro o sono perseguitati; o quelli che dall’Italia partivano fino a qualche decina di anni fa, ugualmente profughi da un paese che non dava loro opportunità. I nostri “compatrioti” venivano fatti sbarcare ad Ellis Island per essere disinfettati, i loro vestiti bruciati (sono pur sempre gli Stati Uniti), ma alla fine una possibilità gli veniva data, noi oggi li tiriamo fuori dall’acqua e li rinchiudiamo in un C.I.E., oppure li rispediamo a Gheddafi, lui saprà cosa farne…

N come No: sembra la nostra parola d’ordine, tutto quello che sappiamo far uscire dalle nostre riflessioni, ma non è un difetto di fabbrica. Il problema è che saremo costretti a ripeterlo continuamente fino a che le logiche dominanti sono quelle della produttività e del consumo. Non ci fermiamo alla parola “ANTI-“, abbiamo le nostre idee su come dovrebbe essere l’Università, su quali canoni dovrebbe seguire lo sviluppo, anche su come dovrebbe funzionare l’intera società, ma per metterle in pratica serve prima smantellare un sistema che parte da logiche che non sono nostre. “Cos’è un ribelle? Un uomo che dice no” (A. Camus)

O come Opposizione: Perchè ne vorremmo una che fosse veramente tale. Non siamo apolitici, siamo apartitici. Perchè non esiste in Italia un partito che non difenda i propri interessi e quelli dei loro amici. Perchè non è possibile ritrovarsi nei valori (quali valori?) di sigle come Pd-PdL-IdV-FLi-UdC che in realtà nascondono sempre la solita identità da vent’anni e i cui membri, a dimostrazione di quanto detto, passano da uno schieramento all’altro senza nessun problema.

P come Partigiani: sono figure che ci ricordano il sacrificio necessario per difendere la libertà; che ci ricordano che non può esistere in Italia democrazia senza antifascismo. Non pensiate che ci vogliamo paragonare a loro, non siamo degli eroi che hanno contribuito a liberare un paese, spesso sacrificando la vita. I partigiani sono delle figure da cui possiamo imparare, e che non dobbiamo mai dimenticare.

Q come Qualunquismo: è uno dei peggiori mali dell’uomo moderno, l’Antipolitica per eccellenza. Se è giusto non avere fiducia nelle istituzioni e nei politici, è assolutamente sbagliato l’approccio che mette in pratica il qualunquista, il non interessarsi a chi sostiene o combatte un’idea, una pratica. Pensare di avere una vita migliore semplicemente ignorando i problemi è ingenuo, ma soprattutto aiuta il potere a mantenersi integro e rafforzarsi.

R come Ragione: è da leggere in due sensi: 1) è dalla nostra parte la ragione quando manifestiamo dissenso, quando diciamo che la società cosi come è strutturata non va bene, quando affermiamo che non siamo liberi di migliorare il mondo; 2) ma la ragione è anche quella che dobbiamo usare per non farci sopraffare da un’altra R, quella di Rabbia, quella rabbia sacrosanta che però rischia di vanificare ogni nostra azione se non la riusciamo a canalizzare.

S come Spazio: una delle rivendicazioni cardine dei Collettivi Universitari è la necessità di spazi di autogestione, di socialità nel luogo dove quotidianamente passiamo il nostro tempo. Le Università non devono essere viste come luoghi asettici fatte solamente di lezioni ed esami. L’Università deve essere un luogo dove circolano idee, dove gli studenti hanno la possibilità di esprimersi. Per questo cerchiamo con tutti i mezzi possibili, dai Cineforum ai Pranzi, dalle Mostre Fotografiche ai Dibattiti, dalle Assemblee alle Presentazioni di Libri, di fare dell’Università uno spazio più vivibile ed un focolaio di sapere critico.

T come Tre+Due: tre+due non fa cinque, fa zero. Zero cultura critica, zero futuro, zero tempo per vivere l’università in senso pieno. Ma tre+due fa anche mille. Mille nozioni, mille precarietà, mille esami in un anno. Tre+due è la formula matematica dell’Università azienda; è la compressione dei tempi; è la frenesia del raggiungimento del credito. Tre+due è l’inizio di un ciclo che ci sta portando ad una riforma dell’Università ogni 2 anni da quando è stato istituito.

U come Università: “l’università voluta da imprese e governi passati e presenti in tutta Europa è quella in grado di produrre forza lavoro precaria, dequalificata e altamente ricattabile, nel minor tempo possibile. La merce particolare della fabbrica dei precari siamo noi stessi, prodotti tramite tempi alienanti in sintonia con i ritmi del lavoro precario, conoscenze parcellizzate e segmentate, irreggimentate in definiti modelli di cooperazione e valorizzazione. Un percorso di studi senza diritti per evitare che questi vengano reclamati un domani (o oggi stesso) sui posti di lavoro. Un’università messa a disposizione direttamente delle imprese secondo le loro esigenze tramite la costituzione di fondazioni private. Un’università come scuola di disciplina: disciplina del futuro lavoratore precario prodotto come merce, disciplina delle donne che devono imparare a rispettare quella gerarchia tra i generi che hanno subito e subiranno per tutto il corso della loro vita. Divide et Impera. All’università come nel lavoro. Ma quel che loro vogliono dividere noi lo vogliamo ricomporre, per smarcarci e contrattaccare.” (da www.ateneinrivolta.org)

V come Vittoria: quella vittoria che ci è sempre mancata ma che continuiamo ostinatamente a rincorrere. Viviamo di sconfitte perchè riteniamo una nostra sconfitta ogni momento in cui si riescono a togliere diritti, a precarizzare la vita dei più deboli, a imporre nuovi ordinamenti universitari che seguano le logiche economiche invece che quelle culturali. Riteniamo una sconfitta l’alternanza PD-PdL, ma anche il disinteresse per la politica nei giovani, i programmi in tv come il Grande Fratello o il Tg4. Ma il sapere che rincorriamo qualcosa di giusto ci fa persistere, e prima o poi arriveremo a questa benedetta V.

Z come Zitti: Non ci sappiamo stare, non ci vogliamo stare. Perchè il silenzio fa sembrare tutto normale, il silenzio è tacito assenso di tutto quello che ci stanno facendo e chi decide gioca proprio sul silenzio della gente per poter ridurre chi gli si oppone al rango di minoranza. Bisogna farsi sentire, scrivendo e urlando che siamo tutti uguali, che abbiamo tutti gli stessi diritti, che non sono i pochi a dover decidere per i molti, che ci siamo stancati di dover seguire i teatrini della politica come se fosse Beautiful.

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