Appello contro la privatizzazione dell’ATAF per un trasporto locale pubblico e efficiente

I 26 milioni di SI’ all’abrogazione della Legge Ronchi del recente referendum portano con sé la richiesta di una riappropriazione dei servizi pubblici essenziali da parte dei cittadini. Un trasporto pubblico locale non inquinante e garantito a tutte/i è un fattore determinante per la vivibilità della città e costituisce, di conseguenza, un bene comune: perciò è nell’ambito pubblico che devono rimanere gli strumenti che vi si riferiscono.

Dire no alla privatizzazione dell’ATAF è una questione che riguarda tutti i cittadini perché, come ci insegnano le esperienze in Italia e all’estero, la qualità del servizio non può essere garantita da un privato che deve trarre profitto dalla gestione di quel servizio; per farlo dovrà risparmiare sui costi del lavoro, dovrà tagliare le linee meno redditizie anche se socialmente utili e dovrà infine aumentare il costo del biglietto.

Un indispensabile ruolo nella battaglia per far rimanere ATAF pubblica e che i Comuni non decidano unilateralmente la vendita delle proprie quote è stato svolto dai singoli lavoratori e dalle RSU di ATAF che hanno promosso e organizzato con ottimi risultati e con adesioni che si avvicinavano ogni volta sempre di più al 100%, gli scioperi contro i Comuni che non volevano neppure discutere la vendita ai privati.

Ataf deve quindi rimanere pubblica e deve essere rilanciata con il sostegno pieno delle realtà cittadine – di movimento, sociali, politiche, culturali – e di tutti coloro che si sono battuti e si battono per i beni comuni, per la partecipazione, per i diritti di chi lavora, per un’idea di città non piegata agli interessi ed ai voleri dei poteri forti (e non “consegnata al “mercato” attraverso le privatizzazioni).

A Roma si stanno raccogliendo le firme contro la privatizzazione di ATAC e nel Consiglio straordinario del 6 giugno anche il PD, che a Firenze è il più strenuo e forse unico, difensore della privatizzazione ha ribadito la loro ferma contrarietà alla privatizzazione dell’Atac, presentando anche una mozione poi bocciata dalla maggioranza di Alemanno.

Proponiamo quindi di costituire un Comitato, che comprenda quanti – soggetti collettivi e singole persone – condividono la necessità di attivarsi contro la privatizzazione dell’ATAF per proporsi di:

– informare la cittadinanza su tale azione portata avanti dall’Amministrazione di Firenze e sostenuta dagli altri Comuni soci di ATAF,

– promuovere occasioni di dibattito e di confronto sul tema della mobilità e dell’importanza del servizio pubblico (per far sì che la mobilità non sia inquinante e venga concretamente garantita a tutte/i)

– richiedere che il dibattito sul futuro di ATAF coinvolga in maniera approfondita e preventiva rispetto alla privatizzazione, i Consigli comunali dei Comuni soci dell’azienda ATAF e di quei territori che giornalmente sono serviti dal servizio di trasporto pubblico

– sostenere in varie forme le iniziative dei lavoratori di ATAF e dei residenti delle zone in cui si ipotizzano tagli alle linee del trasporto,

– bloccare la privatizzazione e poi quello di portare, prima della decisione, la discussione nei consigli comunali e provinciale

– unire tutte le iniziative e le proposte per affermare una “società dei beni comuni” che faccia della nostra città una comunità in cui la partecipazione dei cittadini interviene a regolare i servizi pubblici essenziali per la vita di tutti/e.

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Solo un’altra rivolta

La cronologia degli eventi della rivolta di questi giorni nel Regno Unito ricorda perfettamente quanto accaduto sei anni fa nelle banlieue francesi: allora, proprio come oggi, la scintilla fu la morte di un ragazzo in seguito ad un inseguimento per un piccolo furto; anche allora, come oggi, la risposta fu esplosiva, dapprima nella periferia della capitale, poi in tutti i centri principali della nazione.
Parigi, Londra, due rivolte metropolitane simbolo degli equilibri instabili della società odierna, ma che vanno ad aggiungersi ad altre caratteristicamente simili: Los Angeles, Atene, Napoli. La metropoli che si configura come un’area dove le contraddizioni si acutizzano creando reazioni spesso inaspettate all’occhio inattento di media e governanti, capaci solo di stigmatizzare i “criminali” e di rispondere con la repressione, gettando benzina sul fuoco.
Sì, benzina sul fuoco, perché è proprio il senso di abbandono da parte dello Stato e della politica che porta chi vive in aree urbane degradate, abbandonate a se stesse perché non incluse nella Londra o nella Parigi da cartolina, ad accumulare ostilità e rabbia per poi esternarle senza limiti quando la misura si fa colma.
La complessità di questi eventi è data non solo dalla molteplicità di input che li animano ma dai soggetti che ne sono protagonisti: giovani, precari, abitanti dei margini della società. Qui sta la loro “differenza in comune”, pur se con caratteristiche diverse in ogni paese, ognuno di essi è simile per le condizioni che ne fanno una soggettività unica, condizioni che portano poi una rivolta nata da un evento apparentemente secondario a divenire simbolo della soggettività stessa: la precarietà. Il fatto che proprio a Londra si sia data una rivolta di questo genere non è emblematico di come siano falsi i miti della Londra capitale della multiculturalità, ma di quanto, piuttosto, l’ingiustizia sociale, in assenza di riferimenti politici, trovi sempre una valvola di sfogo.
Due mesi prima dell’omicidio di Mark Duggan, sul Guardian appariva un articolo che titolava con una domanda profetica “Chi darà voce al precariato?”, articolo che ha suscitato polemiche e critiche, ma che poneva una domanda evidentemente ben posta. La risposta adesso è stata data, la questione sta nell’ascoltarla.
Se ci fermassimo all’analisi dei fatti di Londra soltanto attraverso quanto si legge dai giornali o dalle dichiarazioni del governo inglese, la lettura sarebbe tanto semplice quanto errata: bande di criminali che sfruttano un avvenimento drammatico in maniera strumentale, per commettere atti di vandalismo e saccheggiare negozi. Si leggono però anche molte opinioni “da sinistra” simili a quelle sopracitate: si tratta di una rivolta priva di caratteri politici, un’altra rivolta senza una vera coscienza capace di portare istanze o rivendicazioni, paragonabile semmai al fenomeno ultras o al fascino per la delinquenza derivante dalla cultura hip-hop americana. Parere approssimativo, anche se quest’ultima caratteristica è più che vera: odio per lo Stato, sentimento di abbandono da parte della società ed assenza di prospettive per il futuro vanno ad intrecciarsi a quella che è l’influenza della cultura dominante: dal consumismo tipico del capitalismo occidentale allo status symbol del cantante hip-hop di successo, circondato da belle donne ed auto di lusso.
Questo mix è proprio ciò che rende questi eventi ad essere, da un lato, utili a mettere in evidenza le contraddizioni che il sistema capitalista sta portando sempre più all’esasperazione, dall’altro però sono potenzialmente pericolose, sia perché sono occasione per legittimare una stretta repressiva, sia perché la frammentazione sociale e l’assenza di un immaginario costruttivo che li hanno portato in piazza possono anche portare a derive reazionarie.
Da qui nasce la necessità di leggere queste rivolte non come pure esplosioni di rabbia, ma come eventi prepolitici, che si legano necessariamente alla crisi economica ed alle decine di rivolte che in tutto il mondo si stanno riproducendo, tanto da non poter più rintracciare la scintilla originale: la crisi greca, la primavera nord-africana ed i movimenti studenteschi contro il processo di Bologna… possiamo procedere a ritroso fino a Genova 2001 o anche oltre.
Perché prepolitici? Perché se dall’essere una rivolta contro un’ingiustizia sociale, l’omicidio di Duggan e l’affossamento delle responsabilità da parte della polizia, ben presto si è trasformata in un’offensiva contro l’inaccessibilità dei beni “di lusso”, ciò non significa che abbia cessato di essere sociale, anzi! Qui è necessario soffermarsi per capire cosa siano questi beni di lusso. I moti ottocenteschi ai quali si tende paragonare questi eventi erano “rivolte del pane”, nascevano da bisogni primari di lavoratori che concepivano come un lusso addirittura possedere un vero tetto sopra la testa. Oggigiorno scarpe, abiti e strumenti tecnologici non appaiono come beni di lusso, ma beni di prima necessità, soprattutto per chi è cresciuto negli anni novanta, ossia dopo l’avvento di internet.
Assaltare negozi per appropriarsi di ciò che non si può possedere, ma che ogni giorno ci viene sbattuto in faccia in tv e nei cartelloni pubblicitari, è una forma di lotta contro un’alienazione simile a quella dei lavoratori ottocenteschi che si riappropriavano del pane che producevano o delle fabbriche nelle quali lavoravano.
Compresa l’importanza di queste rivolte sociali, ma non ancora politiche, bisogna connetterle alla dimensione globale della crisi e delle resistenze che ad essa, o meglio, a chi la crisi l’ha creata, si oppongono, per evitare che restino un semplice sfogo della generazione “no future”, come fossero una nuova ondata punk.
Per questo non dobbiamo dare ascolto alle testate inglesi che si sono apprestate a negare l’importanza politica della rivolta, scongiurando qualsiasi possibilità che da quest’ultima possano nascere delle rivendicazioni sociali. Se è vero che esplicitamente i rioters non avanzano richieste, le loro pratiche, le loro motivazioni lo fanno a gran voce!
Trovare il bandolo della matassa è compito arduo, ma non dobbiamo cadere nel tranello di chi, per malafede o per miopia, non coglie le nuove forme dell’inafferrabile soggettività che vive il precariato; la frammentazione è la sua, la nostra, debolezza, ma in questi mesi stiamo sperimentandone la forza, dalla Grecia alla Spagna, adesso fino nel Regno Unito, il nostro turno si avvicina.

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Solidarietà agli occupanti di Viale Matteotti


Esprimiamo tutta la nostra solidarietà al Movimento di Lotta per la Casa ed agli occupanti che stamattina sono stati sgomberati dallo stabile di Viale Matteotti, occupazione che andava avanti da 6 anni e che, secondo gli accordi col comune, avrebbe potuto proseguire fino a Settembre, in vista di una soluzione alternativa.
Gli occupanti sono stati denunciati per occupazione e verranno temporaneamente sistemati in un alloggio alternativo, dimostrando come ancora una volta, l’accoglienza e la solidarietà sbandierate dal democratico Renzi non siano altro che parole vuote, dato che nei fatti repressione ed insicurezza è ciò che hanno ricevuto gli occupanti. Quella di oggi è l’ennesima dimostrazione di come Firenze stia prendendo una piega sempre più inquietante: dopo l’esagerata ondata repressiva che ha coinvolto nelle indagini oltre 90 persone e portato a 35 misure cautelari, dopo il rifiuto di assistenza ai richiedenti asilo politico, un altro sgombero vede protagonista Comune e Questura fiorentini, che invece di occuparsi delle vere “associazioni a delinquere” non riescono a fare di meglio che cercare lo scontro coi movimenti sociali dimostrandosi forti solamente coi deboli.

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Dobbiamo fermarli! 5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.

Cinque proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.
Ci incontriamo il 1° Ottobre a Roma

 

 

Per adesioni: (l’indirizzo è protetto dallo spam-bot, quindi si modifica se lo scriviamo tutto attaccato e se non avete attivato javascript)

appello . dobbiamofermarli @ gmail . com (tutto attaccato)

E’ da più di un anno che in Italia cresce un movimento di lotta diffuso. Dagli operai di Pomigliano e Mirafiori agli studenti, ai precari della conoscenza, a coloro che lottano per la casa, alla mobilitazione delle donne, al popolo dell’acqua bene comune, ai movimenti civili e democratici contro la corruzione e il berlusconismo, una vasta e convinta mobilitazione ha cominciato a cambiare le cose. E’ andato in crisi totalmente il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi. La schiacciante vittoria del sì ai referendum è stata la sanzione di questo processo e ha mostrato che la domanda di cambiamento sociale, democrazia e di un nuovo modello di sviluppo economico, ha raggiunto la maggioranza del Paese.

A questo punto la risposta del palazzo è stata di chiusura totale. Mentre si aggrava e si attorciglia su se stessa la crisi della destra e del suo governo, il centrosinistra non propone reali alternative e così le risposte date ai movimenti sono tutte di segno negativo e restauratore. In Val Susa un’occupazione militare senza precedenti, sostenuta da gran parte del centrodestra come del centrosinistra, ha risposto alle legittime rivendicazioni democratiche delle popolazioni. Le principali confederazioni sindacali e la Confindustria hanno sottoscritto un accordo che riduce drasticamente i diritti e le libertà dei lavoratori, colpisce il contratto nazionale, rappresenta un’esplicita sconfessione delle lotte di questi mesi e in particolare di quelle della Fiom e dei sindacati di base. Infine le cosiddette “parti sociali” chiedono un patto per la crescita, che riproponga la stangata del 1992. Si riducono sempre di più gli spazi democratici e così la devastante manovra economica decisa dal governo sull’onda della speculazione internazionale, è stata imposta e votata come uno stato di necessità.

Siamo quindi di fronte a un passaggio drammatico della vita sociale e politica del nostro Paese. Le grandi domande e le grandi speranze delle lotte e dei movimenti di questi ultimi tempi rischiano di infrangersi non solo per il permanere del governo della destra, ma anche di fronte al muro del potere economico e finanziario che, magari cambiando cavallo e affidando al centrosinistra la difesa dei suoi interessi, intende far pagare a noi tutti i costi della crisi.

Nell’Unione europea la costruzione dell’euro e i patti di stabilità ad esso collegati, hanno prodotto una dittatura di banche e finanza che sta distruggendo ogni diritto sociale e civile. La democrazia viene cancellata da questa dittatura perché tutti i governi, quale che sia la loro collocazione politica, devono obbedire ai suoi dettati. La punizione dei popoli e dei lavoratori europei si è scatenata in Grecia e poi sta dilagando ovunque. La più importante conquista del continente, frutto della sconfitta del fascismo e della dura lotta per la democrazia e i diritti sociali del lavoro, lo stato sociale, oggi viene venduta all’incanto per pagare gli interessi del debito pubblico che, a loro volta, servono a pagare i profitti delle banche. Di quelle banche che hanno ricevuto aiuti e finanziamenti pubblici dieci volte superiori a quelli che oggi si discutono per la Grecia.

Questo massacro viene condotto in nome di una crescita e di una ripresa che non ci sono e non ci saranno. Intanto si proclamano come vangelo assurdità mostruose: si impone la pensione a 70 anni, quando a 50 si viene cacciati dalle aziende, mentre i giovani diventano sempre più precari. Chi lavora deve lavorare per due e chi non ha il lavoro deve sottomettersi alle più offensive e umilianti aggressioni alla propria dignità. Le donne pagano un prezzo doppio alla crisi, sommando il persistere delle discriminazioni patriarcali con le aggressioni delle ristrutturazioni e del mercato. Tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, è sottoposto a una brutale aggressione che mette in discussione contratti a partire da quello nazionale, diritti e libertà, mentre ovunque si diffondono autoritarismo padronale e manageriale. L’ambiente, la natura, la salute sono sacrificate sull’altare della competitività e della produttività, ogni paese si pone l’obiettivo di importare di meno ed esportare di più, in un gioco stupido che alla fine sta lasciando come vittime intere popolazioni, interi stati. L’Europa reagisce alla crisi anche costruendo un apartheid per i migranti e alimentando razzismo e xenofobia tra i poveri, avendo dimenticato la vergogna di essere stato il continente in cui si è affermato il nazifascismo, che oggi si ripresenta nella forma terribile della strage norvegese.

Il ceto politico, quello italiano in particolare coperto di piccoli e grandi privilegi di casta, pensa di proteggere se stesso facendosi legittimare dai poteri del mercato. Per questo parla di rigore e sacrifici mentre pensa solo a salvare se stesso. Centrodestra e centrosinistra appaiono in radicale conflitto fra loro, ma condividono le scelte di fondo, dalla guerra, alla politica economica liberista, alla flessibilità del lavoro, alle grandi opere.
La coesione nazionale voluta dal Presidente della Repubblica è per noi inaccettabile, non siamo nella stessa barca, c’è chi guadagna ancora oggi dalla crisi e chi viene condannato a una drammatica povertà ed emarginazione sociale.

Per questo è decisivo un autunno di lotte e mobilitazioni. Per il mondo del lavoro questo significa in primo luogo mettere in discussione la politica di patto sociale, nelle sue versioni del 28 giugno e del patto per la crescita. Vanno sostenute tutte le piattaforme e le vertenze incompatibili con quella politica, a partire da quelle per contratti nazionali degni di questo nome e inderogabili, nel privato come nel pubblico.
Tutte e tutti coloro che in questi mesi hanno lottato per un cambiamento sociale, civile e democratico, per difendere l’ambiente e la salute devono trovare la forza di unirsi per costruire un’alternativa fondata sull’indipendenza politica e su un programma chiaramente alternativo a quanto sostenuto oggi sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra. Le giornate del decennale del G8 a Genova, hanno di nuovo mostrato che esistono domande e disponibilità per un movimento di lotta unificato.

Per questo vogliamo unirci a tutte e a tutti coloro che oggi, in Italia e in Europa, dicono no al governo unico delle banche e della finanza, alle sue scelte politiche, al massacro sociale e alla devastazione ambientale.

Per questo proponiamo 5 punti prioritari, partendo dai quali costruire l’alternativa e le lotte necessarie a sostenerla:

1. Non pagare il debito. Bisogna colpire a fondo la speculazione finanziaria e il potere bancario. Occorre fermare la voragine degli interessi sul debito con una vera e propria moratoria. Vanno nazionalizzate le principali banche, senza costi per i cittadini, vanno imposte tassazioni sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie. La società va liberata dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi, per questo il patto di stabilità e l’accordo di Maastricht vanno messi in discussione ora. Bisogna lottare a fondo contro l’evasione fiscale, colpendo ogni tabù, a partire dall’eliminazione dei paradisi fiscali, da Montecarlo a San Marino. Rigorosi vincoli pubblici devono essere posti alle scelte e alle strategie delle multinazionali.

2. Drastico taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra. Dalla Libia all’Afghanistan. Tutta la spesa pubblica risparmiata nelle spese militari va rivolta a finanziare l’istruzione pubblica ai vari livelli. Politica di pace e di accoglienza, apertura a tutti i paesi del Mediterraneo, sostegno politico ed economico alle rivoluzioni del Nord Africa e alla lotta del popolo palestinese per l’indipendenza, contro l’occupazione. Una nuova politica estera che favorisca democrazia e sviluppo civile e sociale.

3. Giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro. Abolizione di tutte le leggi sul precariato, riaffermazione al contratto a tempo indeterminato e della tutela universale garantita da un contratto nazionale inderogabile. Parità di diritti completa per il lavoro migrante, che dovrà ottenere il diritto di voto e alla cittadinanza. Blocco delle delocalizzazioni e dei licenziamenti, intervento pubblico nelle aziende in crisi, anche per favorire esperienze di autogestione dei lavoratori. Eguaglianza retributiva, diamo un drastico taglio ai superstipendi e ai bonus milionari dei manager, alle pensioni d’oro. I compensi dei manager non potranno essere più di dieci volte la retribuzione minima. Indicizzazione dei salari. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, istituzione di un reddito sociale finanziato con una quota della tassa patrimoniale e con la lotta all’evasione fiscale. Ricostruzione di un sistema pensionistico pubblico che copra tutto il mondo del lavoro con pensioni adeguate.

4. I beni comuni per un nuovo modello di sviluppo. Occorre partire dai beni comuni per costruire un diverso modello di sviluppo, ecologicamente compatibile. Occorre un piano per il lavoro basato su migliaia di piccole opere, in alternativa alle grandi opere, che dovranno essere, dalla Val di Susa al ponte sullo Stretto, cancellate. Le principali infrastrutture e i principali beni dovranno essere sottratti al mercato e tornare in mano pubblica. Non solo l’acqua, dunque, ma anche l’energia, la rete, i servizi e i beni essenziali. Piano straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione, l’istruzione.

5. Una rivoluzione per la democrazia. Bisogna partire dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di casta, per riconquistare il diritto a decidere e a partecipare affermando ed estendendo i diritti garantiti dalla Costituzione. Tutti i beni provenienti dalla corruzione e dalla malavita dovranno essere incamerati dallo Stato e gestiti socialmente. Dovranno essere abbattuti drasticamente i costi del sistema politico: dal finanziamento ai partiti, al funzionariato diffuso, agli stipendi dei parlamentari e degli alti burocrati. Tutti i soldi risparmiati dovranno essere devoluti al finanziamento della pubblica istruzione e della ricerca. Si dovrà tornare a un sistema democratico proporzionale per l’elezione delle rappresentanze con la riduzione del numero dei parlamentari. E’ indispensabile una legge sulla democrazia sindacale, in alternativa al modello prefigurato dall’accordo del 28 giugno, che garantisca ai lavoratori il diritto a una libera rappresentanza nei luoghi di lavoro e al voto sui contratti e sugli accordi. Sviluppo dell’autorganizzazione democratica e popolare in ogni ambito della vita pubblica.

Questi 5 punti non sono per noi conclusivi od esclusivi, ma sono discriminanti. Altri se ne possono aggiungere, ma riteniamo che questi debbano costituire la base per una piattaforma alternativa ai governi liberali e liberisti, di destra e di sinistra, che finora si sono succeduti in Italia e in Europa variando di pochissimo le scelte di fondo.
Vogliamo trasformare la nostra indignazione, la nostra rabbia, la nostra mobilitazione, in un progetto sociale e politico che colpisca il potere, gli faccia paura, modifichi i rapporti di forza per strappare risultati e conquiste e costruire una reale alternativa.

Aderiamo sin d’ora, su queste concrete basi programmatiche, alla mobilitazione europea lanciata per il 15 ottobre dal movimento degli “indignados” in Spagna. La solidarietà con quel movimento si esercita lottando qui e ora, da noi, contro il comune avversario.

Per queste ragioni proponiamo a tutte e a tutti coloro che vogliono lottare per cambiare davvero, di incontrarci. Non intendiamo mettere in discussione appartenenze di movimento, di organizzazione, di militanza sociale, civile o politica. Riteniamo però che occorra a tutti noi fare uno sforzo per mettere assieme le nostre forze e per costruire un fronte comune, sociale e politico che sia alternativo al governo unico delle banche.

Per questo proponiamo di incontrarci il 1° ottobre, a Roma, per un primo appuntamento che dia il via alla discussione, al confronto e alla mobilitazione, per rendere permanente e organizzato questo nostro punto di vista.

 

Per maggiori informazioni:

https://sites.google.com/site/appellodobbiamofermarli/

http://ateneinrivolta.org/

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Libere tutte, liberi tutti

Con questo articolo non vogliamo proporre un semplice aggiornamento sulla situazione che si è creata a Firenze a seguito dell’indagine, cominciata nel 2009, a carico di studenti, giovani e precari che si sono “macchiati del reato” di contestare e combattere nuove leggi, riforme universitarie e ingiustizie sociali sempre più
all’ordine del giorno, ma cercare di proporre qualche spunto, invitare chi lo leggerà ad una riflessione e soprattutto alla partecipazione attiva negli avvenimenti futuri.
Non possiamo però prescindere dal fare un breve riassunto dei fatti prima di incentrare il discorso su due ragionamenti fondamentali:
il comportamento dei media e la preoccupante situazione,
purtroppo non solo italiana, che si trova a vivere chiunque alzi la voce contro la dominazione di una classe politica che si è dimenticata da troppo tempo i propri compiti e
di una classe economica che non ha mai avuto nessun rispetto della dignità delle persone.
Passando ai fatti, basta dire poche parole per far capire quanto allo stesso tempo ridicola e
drammatica sia un’indagine svolta nei confronti di quasi cento persone, di cui 35 hanno subito e stanno ancora subendo restrizioni alla propria libertà come perquisizioni nelle proprie case o dei parenti, obblighi di firma in questura, restrizioni alla libera circolazione in Italia e all’estero, fino ad arrivare a reclusioni, a casa o addirittura in carcere.
Vi chiederete come possa esserci una parte ridicola in questa faccenda, e avete ragione, ma non riusciamo a definire in altra maniera un’accusa di associazione a delinquere giustificata con denunce per manifestazioni non autorizzate, blocchi stradali, interruzioni di pubblico servizio e ingiurie a pubblici ufficiali evidentemente molto meno ironici di noi.
Ancora più incredibile è il dispiegamento di mezzi ed energie per portare avanti queste indagini: 400 pagine di intercettazioni, raccolte attraverso l’uso di costosissime microspie posizionate in luoghi di ritrovo e mezzi privati ed il coinvolgimento della Digos e dei servizi segreti italiani. Passando al comportamento dei media nell’affrontare questa vicenda non
abbiamo potuto che constatare per l’ennesima volta, leggendo ogni tipo di testata, ascoltando le radio e guardando i telegiornali, come in questa società non esista il minimo diritto ad un’informazione reale. Ormai non ce ne stupiamo più, abituati troppo spesso a leggere menzogne su fatti e vicende che ci riguardano direttamente in quanto membri di collettivi, partecipanti a manifestazioni o movimenti di opposizione sociale, ma vorremmo
con questa riflessione sottolineare quanto i media di ogni tipo (per quanto possano ritenersi di sinistra hanno sempre interessi economici a cui piegarsi) siano da leggere criticamente; l’ultimo esempio che ci viene in mente è la Val di Susa (basta confrontare le testimonianze degli abitanti della Valle e gli articoli di giornale).
Altro problema è il sentore del cittadino – il non vedere o non voler vedere le pratiche fasciste – che permette a governanti e polizia di sopprimere ogni sintomo di ribellione con lacrimogeni, manganelli e arresti, complice una paura del dissenso che ormai ha contagiato tanta gente che piano piano comincia a pensare che sia normale e giusto che ad essere
condannato sia il valligiano che combatte perché non si faccia un’opera inutile, costosissima ed ecologicamente devastante, e non gli interessi economici di pochi; che l’espressione di milioni di italiani sulla economicamente rilevante questione dei beni comuni non valga un centesimo rispetto a quello che decide qualche politico al soldo di una multinazionale; che sia l’operaio che deve rinunciare – tra le altre cose – al diritto di sciopero e non la grande industria italiana e i suoi dirigenti a diminuire dei profitti con un numero di zeri difficile da
calcolare per una persona che non ha mai visto più di ottocento euro al mese.
Vediamo le lotte tra partiti politici, ma non la distanza tra gli stessi partiti e i cittadini.
Vediamo gli immigrati che ci rubano il lavoro, ma non gli imprenditori che ci licenziano.
Vediamo estremismi di sinistra che ci minacciano per strada, ma non il fascismo che ritorna.
perché questo ragionamento dovrebbe essere legato alla vicenda di cui stiamo parlando?
Primo, a livello analitico, perché non possiamo non considerare che tutto si muove secondo logiche dipendenti dal mercato, dall’economia, dai profitti di pochi: dalla speculazione sulle grandi opere, alla privatizzazione dei beni comuni, allo sfruttamento sul lavoro, cominciato con i soggetti più deboli, e ormai esteso a tutte le fasce, per finire con l’affossamento dell’istruzione, forse la lotta più vicina per dei Collettivi che nascono nelle Università.
Secondo, a livello più pratico, perché gli atteggiamenti psicologicamente e fisicamente
violenti dei governi si stanno estendendo sempre più e se non troviamo un modo di contrastare un nemico che finge di rappresentarci e difenderci, ci ritroveremo presto in scenari degni delle peggiori previsioni di Orwell.
Il diritto di poter decidere delle nostre vite ci viene negato dalla precarietà economica data
dall’impossibilità di avere un lavoro stabile, dalla difficoltà di poter accedere ad un’istruzione che sia di massa e di qualità, dalla mancanza di uno stato sociale.
Dietro al totem della sicurezza i governi di tutto il mondo occidentale stanno continuamente
limitando le nostre libertà e violando i diritti umani, mirando a far sembrare normali quelle
pratiche di controllo e repressione usate contro i movimenti di opposizione sociale.

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