Prima della Gelmini: breve storia dell’università italiana
Autonomia finanziaria e didattica, processo di Bologna e seguente riforma del 3+2, percorso a ipsilon, legge 270, riforma Gelmini nelle sua varie forme: dietro a queste denominazioni neutre si nascondono privatizzazione dell’università, tagli selvaggi al finanziamento statale, aumento delle tasse studentesche, smantellamento del diritto allo studio, blocchi agli accessi ai diversi livelli di laurea, svilimento della didattica. Appare pacifico che almeno dal 1989 l’università italiana sta subendo un processo di “trasformazione”. Gli esiti appaiono un po’ fumosi, ma in ultima analisi prevedibili: abolizione del valore legale della laurea, libera competizione fra strutture (perché chiamarle università?) che nel migliore dei casi privatizzeranno le eccellenze e pubblicizzeranno le perdite, rigida selezione “meritocratica” oltre lo pseudo-liceo triennale. Ma se sul fine ultimo di questo stillicidio di riforme, leggi, leggine, circolari si può ancora discutere, la tendenza di fondo di questo processo, al contrario, appare molto chiara: rendere l’università quanto più funzionale possibile alla struttura economica e sociale dominante, neutralizzarla di ogni suo possibile ruolo destabilizzante, piegarla alle di volta in volta mutevoli esigenze del mercato. Alla linea portata avanti dai tecnocrati dei vari ministeri che si sono succeduti in questi anni, dagli stimati opinionisti dei più grandi giornali italiani si è opposta la resistenza degli studenti, che hanno vissuto sulla loro pelle il quotidiano erodersi dei loro diritti, mentre la gran parte dei docenti hanno optato per una difesa corporativa e contingente dei loro privilegi baronali, il più delle volte scendendo a compromessi con i vari ministeri, magari dopo aver cavalcato strumentalmente il dissenso studentesco. Un veloce sguardo su questi ventanni di riforme universitarie può essere eloquente.
L’autonomia finanziaria del ministro Ruberti fu un primo passo per mutare gli assetti fondamentali dell’università italiana pericolosamente poco funzionali rispetto alle esigenze del sistema economico che viveva nel frattempo un processo di radicale cambiamento di paradigma. La natura della formazione superiore era segnata in misura ancora molto forte dal compromesso a cui ventanni prima docenti e governo erano stati costretti a scendere dall’inarrestabile movimento studentesco che, partendo proprio dalle università, era riuscito a imporre le sue istanze di democratizzazione dell’istituzione e di liberazione dei saperi. Nell’89 però la situazione era radicalmente cambiata: il fuoco della rivolta studentesca era spento da almeno un decennio, il liberismo trionfante rifiutava ogni possibilità di compromesso e ambiva a invadere con le sue logiche ogni ambito della vita umana. In ossequio alle teorie sullo “stato minimo”, Ruberti, nonostante la strenua opposizione del movimento studentesco della Pantera, riuscì a far passare la possibilità dei finanziamenti privati agli atenei ponendo le basi del disimpegno pubblico dal finanziamento e scatenando un aumento costante delle tasse universitarie. Sul naufragio dell’esperienza della Pantera pesarono zavorre che si sono riproposte, a volte anche aggravate, pure nei movimenti successivi fino a quello dello scorso anno: la scarsa attenzione a costruire alleanze sociali, il problema di darsi forme di organizzazione senza nascondersi dietro ai paraventi dell’autorganizzazione assembleare pura, la necessità di colmare attraverso vertenze su didattica e diritto allo studio lo iato fra il protagonismo studentesco durante i picchi di mobilitazione e i lunghi periodi di “calma” all’interno delle facoltà.
Ma intanto durante tutti gli anni ‘90 l’offensiva neoliberista nella società continuava a mietere i suoi frutti e la struttura dell’università italiana, pur con la riforma Ruberti, era troppo rigida per la nuova natura del capitalismo, a cui non serviva la standardizzazione ad alto livello della laurea quadriennale di vecchio ordinamento, ma mini-lauree professionalizzanti in cui ci fosse di tutto un po’. Allo scopo di riallineare l’università alle esigenze di un’economia che faceva del precariato il suo pilastro fu attuato il cosiddetto Processo di Bologna che intendeva uniformare i sistemi formativi dell’intero continente sul modello anglosassone prendendo come pietra angolare del sistema il credito, cioè la quantificazione del sapere. Lo strumento del credito appare totalmente estraneo a qualsiasi logica che non sia quella della mercificazione dei saperi. Il risultato dell’adesione italiana al Processo di Bologna fu la riforma Berlinguer-Zecchino del 3+2. Gli effetti devastanti dell’applicazione folle di questa legge trasformarono radicalmente l’immagine dell’università italiana. Le caratteristiche più importanti di questo sistema furono la vera e propria degradazione della didattica trasformata in uno sterile spezzatino di nozioni, la proliferazione di corsi di laurea privi di qualsiasi funzione culturale, l’introduzione di tirocini (in qualche caso vero e proprio lavoro non pagato), il boom del precariato: quello vero e proprio di una miriade di figure di docenza invisibile, e quello in cui fu costretto, in una palese palestra di vita, lo studente, alle prese con “la corsa al credito”. La legge 270, ad opera del ministro Mussi, è parsa un semplice riaggiustamento degli elementi più patologici del 3+2, priva di qualsiasi elemento di controtendenza, ma anzi foriera, almeno in alcuni settori, di pericolose conseguenze sulla struttura della didattica.
Ad oggi le conseguenze nefaste del 3+2 sono accettate da quasi tutti; ma sono servite comunque a rendere l’università una tabula rasa pronta a subire il nuovo stadio delle politiche liberiste in campo universitario, che si sono palesate attraverso l’opera del ministro Gelmini.
Il capitalismo, dopo aver occupato la produzione materiale, poggia la sua esistenza sulla sempre più cruda speculazione finanziaria e tende ad invadere con le sue logiche non solo il campo della produzione, ma anche quello della conoscenza, dei beni comuni, nonché gli ambiti fondamentali di ogni individuo: la sua formazione, la sua salute, la previdenza. L’introduzione del prestito d’onore al posto del diritto allo studio garantito dallo stato appare molto simile alla logica che sostiene l’espandersi dei fondi pensione o delle assicurazioni sanitarie private.
La privatizzazione de facto delle università procede spedita e attraverso l’istituto delle fondazioni trova forse il suo strumento finale e palese; i tagli continui mettono a rischio la stessa normale amministrazione di ogni ateneo, senza pensare ai contraccolpi che hanno su tutti quegli ambiti di ricerca che non possono ambire a strumentali finanziamenti privati.
Questo appare il quadro generale in cui si è inserito l’intervento legislativo della Gelmini che ne rappresenta al tempo stesso compimento e continuazione. Attraverso l’accentramento di tutti i poteri nelle mani di un consiglio di amministrazione con una folta presenza di membri esterni (cioè privati); attraverso la creazione del fondo per il merito e il contemporaneo taglio del diritto allo studio pubblico; attraverso l’istituzionalizzazione di figure di ricercatori a termine si assiste a un ulteriore tappa nel più generale processo di adeguamento dell’università alle esigenze del sistema economico.
Ma ancora il lavoro sull’università da parte del sistema dominante non è finito: permangono spazi di manovra, brecce attraverso il quale inserirsi; permangono ancora ambiti in cui l’offensiva da parte del ministero ha ancora da arrivare. Ancora sono da attuarsi tutti i decreti attuativi della Gelmini. Ci dovremo aspettare l’abolizione del valore legale della laurea, l’introduzione di una prova nazionale standard alla fine delle superiori che funga da blocco agli accessi ai corsi di laurea, la creazione di una rigida gerarchia all’interno del sistema degli atenei fra università di elite e di università di massa.
Proprio per questo appare fondamentale non essere colti impreparati dalla prossima mareggiata, analizzare il quadro in tutta la sua complessità, imparare dalle riforme passate e dai movimenti che l’hanno contrastate, senza mai dimenticare che la lotta potrà vincere solo quando essa incontrerà il sociale senza perdere le sue radici all’interno della quotidiana vita universitaria.