Incontro e dibattito a Storia. Mercoledì 30 Marzo ore 15, Via S. Gallo 10 Aula 20

INCONTRO/DIBATTITO

con la professoressa ADRIANA DADÀ

[docente di storia contemporanea nella nostra facoltà] sulle linee di sviluppo fondamentali dell’università dalla metà degli anni ’60 alla fine degli anni ’90.

Come Collettivo crediamo che l’università non rappresenti un’isola di sapere accademico separata rigidamente dalla società che la circonda, ma al contrario sia un’istituzione ben inserita nel generale sistema economico e sociale e condizionata pesantemente da esso. Sotto questa luce è chiarissimo il processo operante in Italia negli ultimi cinquantanni che ha trasformato l’università prima da istituzione di élite a istituzione di massa e pubblica per poi svilire pesantemente il sapere (l’università di corsa appunto) rendendolo adeguato a rinnovate forme di segmentazione e selezione sociale.

Ancora più chiaro appare il legame che questo processo ha avuto con le tendenze generali della società, risultato ora delle pressioni e delle rivendicazioni dei movimenti ora del dominio dell’interesse economico.

Vorremmo quindi, in una dialettica mai sopita fra emergenze del presente e esperienze del passato, analizzare anche storicamente questo processo. Vorremmo ricercare fratture, snodi, possibili alternative al percorso di sviluppo dell’università in cui siamo adesso inseriti.

Cercheremo di farlo in maniera pubblica, collettiva e seminariale ricorrendo anche a spunti, suggestioni e analisi di studiosi che si sono interessati agli argomenti da affrontare.

In questo primo incontro, che abbiamo intenzione di replicare, vorremmo guardare da vicino il periodo, che dalla fine degli anni ’60 giunge alla fine del ‘900, in cui l’università assunse forme pubbliche, di massa, ma al tempo stesso di qualità, che furono poi l’obbiettivo principale delle successive (contro)riforme di governi di vario colore. Vorremmo chiarire insieme alcuni interrogativi: come questo modello si impose sul precedente sistema elitario proprio di una società liberale ottocentesca? Fu il risultato esclusivamente delle spinte di cambiamento dei movimenti sociali? Come si studiava e cosa? Funzionava davvero così male come viene propagandato ora? Quali erano i tempi dell’apprendimento del sapere?

Cercheremo di rispondere insieme a queste domande.

MERCOLEDì 30 MARZO ALLE ORE 15

IN AULA 20 DI VIA SAN GALLO


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“Impugna un libro: è un’arma” (B. Brecht), ed è l’unica ammessa in Facoltà

Quello di mercoledì 16 Marzo sembrava dover essere un Consiglio di Facoltà di routine: solito ordine del giorno sul pensionamento di alcuni docenti, sulla sovrapposizione dei corsi, sul conferimento di onorificenze a dei professori ordinari e sulla firma telematica.

Non lo è stato affatto. Al momento di affrontare il tema dal nome apparentemente neutro, “ottimizzazione degli spazi”, si è presentato un lungo intervento del preside che poneva il problema della deprimente condizione delle strutture e della squilibrata attribuzione degli spazi tra la nostra Facoltà ed altre come quelle di Scienze della Formazione e di Psicologia, a cui è seguito un lungo sfogo sulla presenza di degrado ed insicurezza negli spazi del centro storico, identificabili con gli zingari che spesso entrano per chiedere elemosina o utilizzare i bagni.

Le proposte fatte nella prima parte dell’intervento ci hanno trovato inizialmente favorevoli: la richiesta di attribuzione degli spazi di prossima apertura in via Capponi, una riorganizzazione dell’ala di ex-architettura atta a renderla “più viva” e la richiesta di condivisione di alcune aule in via Laura (attualmente utilizzate esclusivamente da Scienze della Formazione e inizialmente attribuite a tutto il polo Centro Storico), ma ben presto i termini sono cambiati: volontà di eliminare le “frequentazioni promiscue” del chiostro e installazione di tornelli all’ingresso della biblioteca. A questo punto il preside ci ha presentato la sua soluzione dei problemi: l’assunzione di una guardia giurata ARMATA.

Non è bastato fortificare Lettere con un cancello? Ci penserà un militare in pensione: la guardia giurata. Niente più rom che pisciano nei nostri bagni, che molestano gli studenti o che chiedono spiccioli. Così si fa.

Beh, ci siamo permessi di intervenire. Innanzitutto abbiamo richiesto di coinvolgere gli studenti attivamente nella riorganizzazione della Facoltà: se vogliamo ridistribuire gli spazi dobbiamo parlarne con chi li vive, ossia noi studenti. Abbiamo quindi richiesto un’Assemblea di Facoltà od un Consiglio di Facoltà aperto dedicato al tema, così da accogliere le voci di tutti, non solo di noi rappresentanti.

Poi abbiamo affrontato la questione del “degrado”: è mai servito a qualcosa sgomberare le occupazioni o gli accampamenti senza pensare al luogo dove andranno quelle persone che li abitavano? Spostare da una piazza all’altra i senzatetto ha mai risolto qualcosa?

Pensiamo che l’unica cosa che la Facoltà di Lettere possa fare sia affrontare seriamente la situazione, magari con una maggiore vigilanza e controllo, sicuramente senza nessuna guardia armata, ma soprattutto avanzando al Comune delle proposte e la richiesta di politiche serie per far sì che non si lascino accampare rom e senzatetto sotto la prima tettoia utile, che si diano degli spazi adeguati, senza la criminalizzazione di nessuno, e soprattutto senza la militarizzazione né della città né tantomeno della Facoltà.

Le risposte non sono state molto felici, su nessuno dei due argomenti: l’assemblea con gli studenti forse si farà, forse no. E alla guardia giurata si aggiungerà una lettera di lamentela verso il Rettorato. Stop.

Il tema della riorganizzazione degli spazi e quello del “degrado” sono molto differenti e ci ha trovato perplessi l’idea di affrontarli insieme, in maniera confusa e superficiale. Sicuramente spingeremo per una nuova occasione al fine di discutere separatamente e non superficialmente di entrambe le questioni.

“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari

e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei

e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,

ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,

e non c’era rimasto nessuno a protestare.”

(B. Brecht)

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Organizziamo la Rivolta

Il programma:

Dipartimento di Fisica, Università Sapienza – Roma

25 -27 Marzo 2011

 

 

VENERDì 25
ore 14: accoglienza
ore 15.30: assemblea plenaria introduttiva con report dei documenti locali
ore 18.30: Costruiamo la rivolta: per una ripresa del conflitto, ripartiamo dalle opposizioni sociali. Interverranno una studentessa inglese e uno studente tunisino.
Sono inoltre invitati ad intervenire: Marco Bersani – Forum Italiano dei movimenti per l’acqua, Giorgio Cremaschi – Fiom, Paolo Leonardi – Usb, Vincenzo Miliucci – Cobas, Paolo Di Vetta – Bpm, Luca Fagiano – Coordinamento di Lotta per la Casa, Roma, Lavoratori Autoconvocati, Coordinamento Precari Scuola, Coordinamento Precari Università, Coordinamento Migranti Bologna, San Precario, Collettivi femministi e di genere, Studenti medi

SABATO 26
ore 9.30: workshop
– comunicazione e lotte
– organizzazione
– università sociale

ore 14: Manifestazione nazionale per l’acqua bene comune

ore 21: cena sociale e dj set

DOMENICA 27
ore 10: assemblea plenaria conclusiva

L’appello:

Da mesi in Europa e nel Mediterraneo è cambiata la musica.
Negli ultimi due anni la crisi economica è stata al centro delle analisi, dei dibattiti pubblici, delle politiche economiche e sociali dei governi di tutto il mondo. Gestirla, senza parlare mai delle sue cause profonde, salvaguardare le economie nazionali, mantenere intatti i profitti per sempre meno persone sono state le priorità di ogni governo nel mondo.
Le mobilitazioni degli studenti e dei lavoratori in tutta Europa e le rivoluzioni nel mondo arabo ci dicono che l’aria sta cambiando. Emerge con forza l’idea che dalla crisi si esce ribellandosi: l’unica vera uscita è la rivolta!

Nessuno è più disposto a pagare e subire passivamente le scelte di pochi, gli intrighi di palazzo che mantengono in piedi governi corrotti e le loro politiche sempre più antisociali.
Cresce la voglia di piazza ovunque nel mondo, insieme con la consapevolezza che per determinare il proprio presente e riscrivere un altro futuro è necessario rivoltarsi contro l’esistente!

In Italia, negli ultimi mesi, mobilitazioni ampie e radicali quasi si sono date il cambio, alternandosi e parlandosi poco tra loro. Gli operai della Fiat con l’opposizione al ricatto imposto da Marchionne, noi studenti e studentesse con la battaglia contro la riforma Gelmini, le donne scese in piazza il 13 febbraio, gli abitanti di Terzigno e dell’Aquila, tutti noi nella battaglia per la ripubblicizzazione dell’acqua.

Sporadicamente queste soggettività si sono incontrate e quando è successo hanno mostrato tutta la loro forza! Il 14 dicembre l’urlo della piazza ha sommerso le oscenità che mantenevano in piedi nel palazzo un governo corrotto. L’esplosione di rabbia di migliaia di giovani ed i riot di Piazza del Popolo hanno indicato una prospettiva ben precisa: la necessità di una rivolta anche in Italia.

Da questi intensi mesi di mobilitazione vogliamo ripartire guardando in avanti, consapevoli che non ci sia più nulla da aspettare. Non facciamo affidamento su nessun tipo di opposizione parlamentare, non pensiamo che Berlusconi ed il berlusconismo possano essere sconfitti tramite la magistratura, non crediamo che una società più giusta possa essere costruita tramite riforme istituzionali.

Siamo convinti che anche in Italia ci sia bisogno di una rivolta di massa, in grado di irrompere nella quotidianità e rovesciare i rapporti di forza, come è avvenuto in Tunisia ed Egitto, come sta avvenendo in Libia proprio mentre scriviamo questo appello.

E’ dunque necessario organizzarsi, perché la rivolta non è solo spontanea ma ha bisogno anche di essere stimolata, costruita, organizzata appunto.

AteneinRivolta nasce nel 2008 durante il movimento dell’Onda con un sito internet, www.ateneinrivolta.org. In questi due anni ha costruito una rete di collettivi studenteschi presenti in diversi atenei, con lo scopo di superare l’estrema frammentazione che ha contraddistinto le recenti lotte studentesche in Italia.

Con la tre giorni di assemblee, workshop e iniziative che stiamo organizzando per il 25, 26 e 27 marzo a Roma vogliamo fare un ulteriore passo in avanti.

Tutte le rivolte europee e del Mediterraneo hanno visto emergere uno straordinario protagonismo giovanile: non solo studenti e studentesse dunque, ma anche tanti giovani lavoratori, quasi sempre precari, perché è proprio la precarietà l’unica sicurezza che appartiene a noi giovani oggi.

Allo stesso tempo però, noi giovani siamo probabilmente il soggetto meno organizzato: rifiutiamo i partiti istituzionali, impermeabili alle spinte dal basso dei movimenti e quindi troppo distanti da noi e dalla società in generale, incapaci di leggere i nuovi processi in atto; scontiamo l’oggettiva difficoltà dei sindacati a relazionarsi con la nuova composizione del mercato del lavoro, con le nuove figure lavorative e le nuove forme contrattuali e la conseguente incapacità di riuscire dunque a rappresentare ed organizzare in primo luogo i giovani lavoratori precari.

Come giovani non abbiamo dunque un’ancora di salvataggio pronta, dobbiamo costruirla insieme. C’è bisogno di una nostra organizzazione, che faccia i conti con il passato ed il presente, ma che abbia lo sguardo rivolto verso il futuro. C’è bisogno di un’organizzazione in grado di coordinare i collettivi di giovani e studenti che ogni giorno intervengono capillarmente nelle scuole, nelle università e nei quartieri e allo stesso tempo di favorirne la nascita e lo sviluppo di nuovi, anche nei piccoli atenei e nei piccoli centri dove è oggettivamente più difficile mobilitarsi. Un’organizzazione in grado di superare le difficoltà legate alla dislocazione dei collettivi sul territorio e di valorizzarne le specificità, attraverso un coordinamento nazionale di nodi locali.
Un’organizzazione che non sia fine a se stessa ma che abbia sempre come primo obiettivo quello di stimolare la nascita di movimenti di massa e di favorirne i processi di autorganizzazione, perché solo così saremo in grado di rivoltare il presente e costruire una società futura migliore.

Le cronache dall’Europa ci fanno sentire meno soli. Non c’è un paese in cui i giovani non si siano ribellati contro le politiche di Austerity. Gli aumenti delle tasse universitarie in Inghilterra, la riforma delle pensioni in Francia, la riduzione dei salari in Grecia sono gli elementi scatenanti di una rivolta sempre più necessaria…e sempre più possibile.

Sappiamo inoltre di non essere i soli ad avere questo desiderio di rivolta. Nel pieno delle mobilitazioni studentesche di questo autunno ci ha lasciato un compagno, Mario Monicelli, che nella rivoluzione non ha mai smesso di sperare.

Mario diceva che in Italia “ci vuole qualcosa che riscatti veramente questo popolo […] una bella botta, una bella rivoluzione”.

Noi la pensiamo come Mario, anche in Italia c’è bisogno di rivolta, qui ed ora. Organizziamoci!

AteneinRivolta

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Incontro e dibattito a Lettere Mercoledì 23 Marzo ore 15:30

In un paese della costa un uomo sonnecchia sulla spiaggia. Un turista gli si avvicina e inizia a chiacchierare:
“E lei, di cosa si occupa?”
”Faccio il pescatore”.
”Beh, deve essere un lavoro duro! Sicuramente lavora parecchie ore”.
”Infatti, lavoro parecchio”.
”Quante ore lavora al giorno?”
”Beh,tre o quattro”.
”Non mi sembrano tante. E cosa fa il resto del tempo?”
”Beh, mi alzo tardi. Lavoro tre o quattro ore, gioco un po’  con i miei figli, dormo la siesta con mia moglie e poi, verso sera, vado in giro con gli amici a bere qualche birra e a suonare la chitarra”.
“Ma, non si può fare così”.
”Cosa vuol dire?”
”Perché non lavora un po’ di più?”
”E perché dovrei?”
”Perché così, in un paio di anni potrà acquistare una barca più grande”.
”E perché dovrei?”
”Perché dopo qualche tempo potrà mettere in piedi una pescheria nel paese”.
”E per far cosa?”
”Perché così, in seguito, potrà aprire un ufficio in una grossa città”.
”E perché?”
”Perché così più avanti potrà aprire sedi di rappresentanza in Francia”.
”E perché dovrei?”
”Perché così potrà quotare in borsa le azioni della sua azienda e diventare molto ricco”.
”E per cosa?”
”Perché così, dopo potrà andare in pensione e godersi la vita tranquillamente. Potrà alzarsi tardi, giocare un po’ con i nipotini, fare la siesta con sua moglie e, verso sera, potrà andare in giro a prendere qualche birra e suonare la chitarra con gli amici”.

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Iran 1978 – Italia 2011

“La rivoluzione mise fine al regno dello scià. Distrusse il palazzo e seppellì la monarchia. Cominciò con un errore, apparentemente banale, commesso dal potere imperiale. Un piccolo passo falso, e la sorte dello scià fu segnata.

Di solito le cause delle rivoluzioni vengono cercate nei dati di fatto concreti: la miseria generale, l’oppressione, gli abusi scandalosi di potere. Si tratta di un punto di vista corretto, che tuttavia resta lacunoso. Situazioni del genere si verificano infatti in centinaia di paesi, eppure le rivoluzioni sono rare. Sono indispensabili altri due elementi: la consapevolezza di essere miseri e oppressi, e la convinzione che miseria e oppressione non fanno parte dell’ordine naturale del mondo. Per strano che possa apparire, in questo caso non basta l’esperienza diretta, per dolorosa che possa essere: ci vogliono anche le parole e le idee chiarificatrici. Infatti i tiranni temono più che le bombe e i pugnali, il libero scambio di parole sulle quali non possono esercitare un controllo: parole clandestine, dissenzienti, prive di uniformi di gala e di timbri ufficiali. Ma qualche volta sono proprio le parole ufficiali dell’autorità, con tanto di timbri e divisa a provocare le rivoluzioni.

Occorre distinguere la rivoluzione dalla rivolta, dal colpo di stato e dal rovescio di palazzo. Colpo di stato e rovescio di palazzo si possono programmare, la rivoluzione mai. L’ora dello scoppio coglie tutti di sorpresa, perfino coloro che aspirano alla rivoluzione restano stupiti davanti a quella forza naturale che all’improvviso si scatena, distruggendo tutto ciò che trova sul proprio cammino. E’ una distruzione talmente spietata che talvolta finisce per annientare anche gli ideali che l’hanno prodotta.

Si sbaglia pensando che le nazioni vittime della storia (e sono la maggioranza) tengano sempre presente la possibilità della rivoluzione, vedendovi la soluzione più semplice. Le rivoluzioni sono un dramma, e l’uomo tende istintivamente a evitare le situazioni drammatiche; tant’è vero che, anche quando vi si trova dentro, cerca a tutti i costi una via d’uscita pur di ristabilire la pace e, soprattutto, la quotidianità. Ecco perchè le rivoluzioni non durano mai molto a lungo. La rivoluzione è l’ultima risorsa: se un popolo decide di riccorrervi, accade solo perchè si è convinto per lunga esperienza, che si tratta dell’unica via d’uscita. I tentativi precedenti di cambiare le cose sono finiti tutti sconfitti, e le altre procedure hanno tutte fallito.

Di solito le rivoluzioni vengono precedute da uno stato di esaurimento generale e, al tempo stesso, di violenta aggressività. Il potere non sopporta una nazione che gli dà ai nervi; il popolo non sopporta un potere che gli è divenuto odioso. Il potere ha speso tutta la sua credibilità e si ritrova a mani vuote; il popolo ha perso anche l’ultima briciola di pazienza e stringe i pugni. La tensione cresce, l’oppressione si fa sempre più schiacciante e dà luogo a una psicosi del terrore. L’esplosione è ormai vicina, la si respira nell’aria.

Per quanto riguarda la tecnica di lotta, la storia conosce due tipi di rivoluzione: quella d’assalto e quella per assedio. Il destino e il successo della rivoluzione d’assalto vengono determinati dalla violenza d’urto iniziale. L’essenziale è colpire duro e occupare il maggior territorio possibile, dato che questo tipo di rivoluzione, anche se il più violento, è senz’altro il più superficiale. L’avversario in effetti è stato sconfitto, ma ritirandosi, ha mantenuto parte delle sue forze e non tarderà a contrattaccare, costringendo i vincitori a far marcia indietro. Quindi più violento è il primo colpo rivoluzionario, maggiore sarà lo spazio che, malgrado i successivi negoziati, la rivoluzione potrà salvare. Nelle rivoluzioni d’assalto la fase più radicale è la prima; dopo subentra un lento ma inesorabile indebolimento, fino al punto in cui le due parti – la ribelle e la conservatrice – raggiungono un compromesso definitivo. Invece, nella rivoluzione per assedio, di solito il primo colpo è debole e non lascia presagire il cataclisma incombente. Dopo un pò gli eventi precipitano e si fanno drammatici: i ribelli diventano sempre più numerosi, le mura che proteggono il potere pian piano si incrinano e crollano. Il successo della rivoluzione per assedio viene deciso dalla determinazione, dalla forza di volontà, dalla capacità di resistere dei rivoltosi: teniamo duro un altro giorno! Coraggio, un ultimo sforzo! Alla fine i cancelli cedono, la folle irrompe e celebra il suo trionfo.

E’ sempre il potere a provocare la rivoluzione. Non certo di proposito. Tuttavia il suo stile di vita e di governo finisce per diventare una vera e propria provocazione. Ciò avviene quando tra i personaggi dell’élite si instaurano il senso dell’impunità e la convinzione di poter fare qualunque cosa, di potersi permettere tutto. E’ un’illusione, certo, ma non priva di giustificazioni razionali. Per molto tempo sembra realmente che i membri dell’élite possano fare quello che vogliono: per quanti scandali e illegalità commettano la passano sempre liscia. Il popolo pazienta e tace: non si è ancora scrollato di dosso la paura, non si rende conto della propria forza. Al tempo stesso, però tiene minuziosamente conto dei torti subiti, tirerà le somme al momento debito. La scelta di questo famoso momento è uno dei massimi enigmi della storia. Perchè proprio quel giorno, piuttosto che un altro? Perchè mai quell’elemento scatenante, e non un altro? Fino a ieri il potere si permetteva gli eccessi più estremi senza che nessuno fiatasse. “E oggi che avrò mai fatto,” chiede stupito il sovrano, “da farli imbestialire così di colpo?” Che cosa ha fatto? Ha abusato della pazienza del popolo. Ma dove si pone il limite di questa pazienza, come lo si individua? La risposta sarà diversa per ogni singolo caso, sempre che si riesca ad appurare qualcosa di attendibile. Un dato comunque è certo: solo i sovrani che conoscono l’esistenza di tale limite, e sanno rispettarlo, possono contare di restare a lungo al potere. Ma sono pochi.”

Ryszard Kapuscinski, Shah-in-Shah, traduzione italiana di Vera Verdiani.

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