Intervento del Collettivo all’assemblea FIOM a Firenze

Siamo intervenuti così all’iniziativa FIOM sullo Statuto dei Lavoratori del 20 Maggio al Palazzo dei Congressi, a Firenze:

“Come studenti universitari interveniamo più che volentieri a quest’assemblea in quanto da sempre non solo ci battiamo contro riforme che tagliano fondi, dequalificano i saperi e piegano le università alle esigenze d’un mercato famelico, che in questi mesi sta mostrando la sua vera faccia anche in Europa; ma da sempre rivendichiamo un’Università diversa, che stia nella società e che operi per la società, e che quindi contribuisca ad un suo sviluppo per il bene comune. Quello che vogliamo fare oggi qua, partecipando alla discussione, è dare alcuni spunti per la costruzione di un progetto di opposizione sociale, di coalizione sociale, e soprattutto di alternativa, alternativa non solo a questo governo ma a questo modello di società e di produzione.

Se volgiamo lo sguardo all’Europa intera, alla Grecia che rifiuta nettamente le politiche di austerity, irrompendo nelle piazze e bocciando tutti i partiti di filo-memorandum, alla Spagna che dopo un anno mobilita ancora centinaia di migliaia di indignati, alla Germania che negli scorsi giorni ha messo in campo una protesta dall’orizzonte europeo ed internazionale, contro il ricatto del debito e le politiche antisociali della Troika; se inquandriamo in questo contesto le elezioni amministrative ancora in corso che è evidente come questa tornata sia marcata da un ampio astensionismo ed un exploit delle liste “antisistema”. Ma senza cadere in dibattiti miopi sull’antipolitica, cerchiamo di imparare da quest’evento com’è stato per il referendum d’un anno fa: come per la campagna referendaria la vittoria non è consistita tanto nell’esito positivo della votazione ma nel circuito virtuoso di partecipazione attiva e di rifiuto di delegare le scelte, in queste elezioni dobbiamo saper  leggere la domanda di partecipazione democratica e dal basso, esattamente come nelle molteplici resistenze e lotte che si danno in tutto il territorio e che ci permettono di cogliere uno spiraglio ottimistico nel desolante panorama politico di questi anni, monopolizzato di fatto da un partito unico subalterno alla gestione neoliberista dell’Unione Europea dei cosiddetti tecnici.

Questi segnali di rifiuto da parte della società sono fisiologici in una fase di crisi nella quale le contraddizioni del sistema diventano insostenibili, dalla crisi economica a quella sociale ed ambientale. Ma se tutto ciò mette in crisi anche l’ideologia dominante, che non riesce più ad illudere con le sue promesse di ecosostenibilità, democrazia e benessere per  tutti, e palesa in maniera drammatica l’ingiustizia di questo modello sociale, nessuna alternativa riesce a contrapporsi all’esistente.

La priorità che dobbiamo porci riguarda proprio quest’aspetto: dobbiamo ricostruire la prospettiva d’un cambiamento reale, fuori da retoriche, settarismi ed indentitarismi.  Dobbiamo essere capaci di testimoniare e costruire alternativa, partendo innanzitutto dalla società: la crisi politica italiana, infatti, non è altro che lo specchio di una società frammentata e in crisi di valori, ed è da qui che dobbiamo ripartire, agendo su più livelli.

Innanzitutto dobbiamo uscire dalla subalternità della sinistra all’ideologia dominante, partire da valori nuovi, “altri”, per uscire da una società permeata di individualismo, competizione e diffidenza; ripartire da un’utopia da contrapporre all’esistente dominato dalla logica del profitto e del “tutti contro tutti”.

Ripartire quindi da pratiche ri-aggreganti e solidali, per porre le basi per un progetto di alternativa ad una Europa caratterizzata dal ricatto del debito e dall’assunzione come oggettive e necessarie delle politiche di privatizzazione, taglio della spesa pubblica e gestione della crisi sulla pelle di quel 99% che da sempre è in credito, in quanto sfruttato ed escluso dagli organi decisionali nazionali ed europei.

La prima rivendicazione politica che dobbiamo assumere è quindi il netto rifiuto al pagamento del debito, oggi strumento di sfruttamento in Europa come per anni è stato per il Terzo Mondo, assumendo come priorità la messa in discussione delle politiche economiche e di governance europee, che non lasciano spazio alla partecipazione politica dei cittadini che ne fanno parte.

Il secondo obiettivo dev’essere quello di dar vita una dinamica di movimento ampia, che parta sì da delle giornate di mobilitazione a Giugno sotto Camera e Senato, ma che abbia l’obiettivo chiaro e netto di opporsi a questo governo, perché  dopo un iniziale sollievo da parte di molti dopo la caduta di Berlusconi, si mostra come il governo neoliberista  più dogmatico che in Italia si sia visto, e se vogliamo fermarlo non basta evocare l’opposizione ma dobbiamo praticarla, nelle forme che riteniamo più efficaci.”

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Verso la manifestazione del 19 Maggio contro la privatizzazione di Ataf, in difesa dei beni comuni e dei servizi pubblici, i Collettivi fiorentini organizzano una festa (qua l’evento FB) a sostegno del comitato:

In un paese nel quale da anni si privatizzano i servizi essenziali, nonostante la volontà popolare si sia espressa chiaramente contro questi processi, anche in occasione dei referendum del giugno scorso, l’azienda dei trasporti di Firenze (ATAF) sarà scorporata e venduta al migliore offerente con il benestare di buona parte del consiglio comunale, sindaco Renzi in primis.

In questi ultimi anni si sono susseguiti tagli alle linee, aumenti dei biglietti e riduzione del servizio (basta guardare il nuovo autobus notturno, Nottetempo, che costa 4 euro), soprattutto per le zone periferiche.
La gestione pubblica delle aziende per il trasporto è da sempre assoggettata alle logiche di mercato: l’istituzione delle SPA (partecipate sia da enti pubblici che privati) ha agito seguendo criteri di mera produttività invece di pensare ad un trasporto pubblico a misura di cittadino. Se pensiamo quindi a come potrà agire un privato che non cerca di migliorare il servizio ai cittadini, ma il cui unico obiettivo è il profitto, appaiono ben chiare le motivazioni del nostro “NO” alla privatizzazione di ATAF.
Questa dinamica di privatizzazione e le conseguenti misure di “razionalizzazione”, che nella pratica si traducono nel licenziamento dei lavoratori “in esubero”, nel taglio delle linee meno proficue e nell’aumento del costo del biglietto, ci porta a ripensare la gestione pubblica dei cosiddetti beni comuni. E’ necessario che le comunità si facciano parte attiva nella tutela e nella gestione di questi beni condivisi: le decisioni in merito non possono essere delegate proprio perché riguardano direttamente il benessere collettivo. La lotta per la difesa dei beni comuni non si limita solo alla gestione pubblica dell’acqua e dei trasporti, ma si estende fino alla sanità, al lavoro, alla cultura, alla tutela dell’ambiente, contro le grandi opere inutili come il Tav, gli inceneritori e le discariche.
Rivendicare un trasporto pubblico e di qualità rientra, per noi studenti, in una più generale lotta per il diritto allo studio. Infatti, la battaglia per un’università pubblica e di massa non può limitarsi alla richiesta di borse di studio o di alloggi, ma deve rivendicare un servizio di trasporti pubblico e gratuito.
Se l’Università di Firenze da una parte stipula un accordo con ATAF per ridurre sensibilmente il costo annuale dell’abbonamento per i suoi dipendenti, dall’altra esclude studenti e lavoratori in appalto (pulizie e portinerie) dal medesimo beneficio. Non saremo noi ad incentivare una guerra fra garantiti e non, ma certamente chiediamo un ampliamento dell’accordo a tutti i soggetti che compongono l’università.

Anche per questo scenderemo in piazza a fianco dei lavoratori di ATAF e del Comitato contro la privatizzazione di ATAF: per ribadire la nostra contrarietà alla svendita del trasporto pubblico locale e per rivendicare un trasporto pubblico e gratuito per tutti e tutte.

Collettivo d’Agraria – Collettivo d’Ingegneria Filo da Torcere – Collettivo di Lettere e Filosofia – Collettivo SMU Studenti Multietnici Uniti – Collettivo di Psicologia Laboratorio 15 – Collettivo di Architettura Ark – Collettivo di Medicina Codice Rosso – Collettivo di Novoli RossoMalPolo – Collettivo di Scienze della Formazione Nosmet – Collettivo di Scienze – Collettivo di Scienze Politiche Col*Pol – Collettivo di Farmacia Farmacoresistenza – Studenti di Sinistra

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INSOSTITUIBILE ROUSSEAU di Alberto Burgio (da “il manifesto” del 1/5/2012)

A 250 anni dalla pubblicazione, il «Contrat social» mette in luce le intuizioni del filosofo sui dilemmi della democrazia borghese

 

Il 2012 è un anniversario rousseauiano perfetto: Jean-Jacques nacque (a Ginevra) 300 anni fa e 250 anni sono trascorsi dalla pubblicazione del Contrat social e dell’Émile, le due opere che – insieme ai Discorsi e alle Confessioni – hanno consacrato il loro autore a una fama imperitura.

Teorie «empie e scandalose»

Rousseau è figura controversa per eccellenza. Uomo dei Lumi, «anticipò» secondo alcuni la temperie romantica. Amico di Diderot (e collaboratore dell’Encyclopédie), fu la bestia nera di tanti philosophes, che non gli perdonarono le invettive contro la «civilizzazione» e i suoi miti progressisti. Padre della Rivoluzione e icona dei giacobini che ne vollero traslare le spoglie mortali nel Pantheon, è non di rado accusato di conservatorismo per la tenace nostalgia verso l’arcadia e la riverente attenzione alla lezione di Montesquieu.

Il piano politico è centrale nella controversia, che coinvolge in particolare il Contrat social, pubblicato nel 1762 e subito messo all’Indice, insieme all’Émile, sia a Parigi che a Ginevra, dove il Piccolo Consiglio che governa la città ne definisce le teorie «temerarie, scandalose ed empie: tese a distruggere la religione cristiana e ogni governo». Come ha mostrato in una preziosa analisi Louis Althusser, il capolavoro rousseauiano è un’opera complicatissima, labirintica, apparentemente contraddittoria. Non vi è traccia del geometrismo cartesiano, abbondano invece anacoluti logici, prolessi criptiche, iati e duplicazioni. Lo stesso Rousseau se ne avvede e chiede – esige – la pazienza del lettore, se non la sua complicità. «Tutte le mie idee si tengono, ma non posso esporle tutte in una volta» scrive, quasi a prevenire più che prevedibili critiche. Ma non è solo questione di difficoltà espositive. I problemi sono altri e ben altrimenti concreti.

Il plauso di Kant e di Hegel

Dove si può dire risieda il cuore del libro? Paradossalmente, nella critica del contrattualismo moderno. Anzi, nella sua decostruzione in omaggio a un criterio (il primato della ragione e dell’interesse comune) che susciterà il plauso di Kant (nel cui Olimpo Rousseau affianca Hume e Francesco Bacone) e Hegel (che gli riserverà uno dei rari elogi presenti nelle Lezioni berlinesi sulla storia della filosofia). Vediamo schematicamente come si svolge questa critica demolitrice dall’interno del paradigma contrattualista, già condotto alle più alte vette di precisione e potenza da due protagonisti del Seicento filosofico inglese, Hobbes e Locke.

In apparenza Rousseau condivide il punto di partenza del contrattualismo hobbesiano e lockeano: il problema politico sorge perché gli individui sono liberi per natura (ex jure naturali) e dotati di forza sufficiente a imporre il rispetto della propria libertà. Per di più sono egoisti: mirano ciascuno al proprio vantaggio particolare, secondo la nascente antropologia dell’homo oeconomicus.

Sulla base dell’influente sintesi contrattualistica della piattaforma ideologica borghese, avversa all’autocrazia di antico regime, il problema della legittimità politica può essere risolto soltanto con l’accordo tra tutti. Da qui l’idea che a dar vita alla sovranità debba essere un «contratto sociale», garante del rispetto dei diritti e degli interessi individuali.

Agli antipodi di Hobbes

Ma questa è solo l’apparenza, o l’avvio del discorso. A valle del quale Rousseau va per la sua strada, distaccandosi dai predecessori e muovendo loro contestazioni radicali. Quella prospettata nel De cive o nel Leviatano (Hobbes) e nel Secondo Trattato (Locke) non è una vera società né una forma legittima di sovranità, poiché l’accordo di tutti gli individui – pure indispensabile – di per sé non garantisce affatto il rispetto dei loro diritti né, tanto meno, la giustizia sociale, non meno decisiva ai fini della legittimazione.

L’egoismo è spesso miope e distruttivo. Nel perseguire il proprio vantaggio i più non esitano a danneggiare il prossimo. Inoltre spesso ci si sbaglia sul proprio interesse, poiché è facile sapere quel che serve nell’immediato, ma è molto difficile prevedere ciò che servirà in futuro. Senza contare che spesso si viene raggirati da chi, con pochi scrupoli, mente, simula o mistifica. Come presumibilmente avvenne all’atto della fondazione della «società civile», quando – per riprendere un celebre luogo del Discorso sull’ineguaglianza, dato alle stampe sette anni prima del Contrat – chi si era appropriato di un podere lo recintò (torna alla mente il resoconto marxiano della «cosiddetta accumulazione originaria»), se ne dichiarò proprietario («questo è mio») e realizzò l’usurpazione in quanto «trovò persone ingenue abbastanza da prestargli fede».

Il contratto sociale, dunque, non garantisce la legittimità del potere: da qui prende le mosse un lavoro ai fianchi del modello contrattualista che lo rovescia come un calzino e di fatto lo smonta e lo rottama. L’egoismo irrazionale (immorale, distruttivo) è un problema che deve essere risolto. Per questo la politica non può limitarsi a un’algebra delle forze, ha un compito di ben altra portata: deve trasformare gli individui nella loro moralità, estirpare alla radice ogni loro propensione anti-sociale.

Siamo agli antipodi di Hobbes (per il quale si era trattato di stabilire le condizioni della sicurezza dei corpi e dei beni) e di Locke (che aveva conferito legittimità all’accumulazione illimitata delle proprietà). Il contratto rousseauiano è chiamato a operare una mutazione antropologica nel segno del primato dell’interesse comune. Da qui la messa in discussione della stessa dimensione individuale: «all’istante, in luogo della persona particolare di ciascun contraente» il patto fondativo della nuova società deve generare «un corpo morale e collettivo» che «da questo atto riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà».

Ma Rousseau non è un ingenuo. Non si illude che veramente un contratto (peraltro, in questo caso, una metafora, un semplice schema logico utile ad articolare l’istanza democratica nella lotta antifeudale) possa di per sé avere ragione di una forma concreta dell’individualità: estirpare come d’incanto il particolarismo consolidatosi nel corso del lungo processo di modernizzazione, luogo d’incubazione dell’antropologia proprietaria egemone nell’Europa borghese. Egli sa bene che il contratto serve a poco.

Se c’è una speranza, questa riposa sul concreto funzionamento delle istituzioni politiche, sulla sua coerenza con la loro ratio costitutiva. Quella che si tratta di giocare è una delicata partita a scacchi dentro il quadro dei poteri e nel corpo stesso della collettività. Gli egoismi vanno estirpati o almeno imbrigliati. E Rousseau le tenta tutte per vincere questa battaglia.

Qualità e quantità

Tenta, dapprima, la carta delle procedure. Stabilisce con puntiglio le regole del voto nell’assemblea legislativa, graduando il principio di maggioranza in base alla rilevanza e all’urgenza delle decisioni. Ma è sin troppo evidente (almeno a lui, visto che di questi tempi corre invece l’idea che la democrazia sia una questione di «regole del gioco») che le procedure di per sé non garantiscono nulla. Persino l’unanimità dei consensi non dimostra coesione o disinteresse personale, visto che domina anche nelle assemblee servili, quando «i cittadini non hanno più libertà né volontà».

È poi la volta della carta teoreticamente più ardita, intorno alla quale generazioni di lettori del Contrat si sono variamente rotte la testa: la definizione della volonté générale come sinonimo (a priori) del bene comune. L’insufficienza dei vincoli procedurali dimostra che non è possibile desumere la qualità delle decisioni dalla quantità dei consensi. Allora, per quanto bizzarro possa sembrare, il discorso andrà rovesciato di sana pianta. Posto che «ciò che generalizza la volontà» (ciò che garantisce la corrispondenza tra volontà e giustizia, tra volontà e bene comune) «è meno il numero dei voti che l’interesse comune che li unisce», bisognerà partire dall’interesse comune. Il quale (lo sappiano o no i cittadini riuniti nel corpo sovrano) risiede nella solidarietà, nella (relativa) uguaglianza, nella sobrietà, nella moderazione.

Una resa apparente

Ma così, che fine fa l’autonomia decisionale del corpo sovrano? E poi: nell’assemblea votano individui corrotti dallo spirito del tempo, i quali – come abbiamo visto – hanno tutt’altra idea dei propri interessi. Per questo spesso si formano consorterie e fazioni, intese, le une e le altre, a curare il proprio particulare. Quale ascolto daranno costoro alle indicazioni della volonté générale? Quando si dice «volontà», spesso e volentieri ci si fraintende: si vuole sempre il proprio bene, ma come lo si troverà se non si è in grado di vederlo?

Il risultato sembra una resa incondizionata: «come può una moltitudine cieca, che spesso ignora ciò che vuole poiché raramente sa che cosa è per lei bene, compiere un’impresa grande e difficile come un sistema di leggi?» Per parte sua, la volonté générale ha un bell’essere per definizione «retta e tesa alla pubblica utilità», «sempre costante, inalterabile e pura»: se il popolo è fuorviato, se nell’assemblea prevalgono i particolarismi, essa non verrà espressa («ammutolisce») e di certo sarà sopraffatta.

Dal tutto alla parte

Consapevole di ciò, Rousseau tenta, infine, l’ultima carta – sorprendente e fatale (se non altro perché sancisce il fallimento del modello contrattualistico, o quanto meno la fuoriuscita del Contrat dal suo quadro di riferimento). Nell’estremo tentativo di venire a capo del problema, constatata l’inemendabile miseria degli uomini («ci vorrebbero degli dei per dare loro un corpo di leggi»), Rousseau fa intervenire la figura platonica del legislatore, antitesi vivente della partecipazione democratica. Un dio profano, forte di un’autorità trascendente («di un’altra specie»), è in effetti «il meccanico che inventa la macchina» dello Stato. Ed è sin troppo evidente che la sua irruzione mette in mora il dispositivo contrattualistico, visto che il legislatore assolve esattamente il compito affidato al contratto: fonda la nazione e per questo cambia la natura umana, sostituendo «un’esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che abbiamo tutti ricevuto dalla natura» e «trasformando ogni individuo, che in se stesso è un tutto perfetto e isolato, in una parte di un tutto più grande».

Difficile immaginare una più esplicita affermazione dell’impossibilità di risolvere il problema politico attraverso il contratto sociale. Rousseau non ne formalizza il ripudio né rinuncia al carattere democratico della teoria; si preoccupa di circoscrivere le prerogative del legislatore («il suo ufficio non è magistratura, non è sovranità»); conserva il principio di maggioranza per le decisioni collettive e, soprattutto, riserva la sovranità all’assemblea dei citoyens. Ma in questo modo, come nel gioco dell’oca, i problemi che aveva cercato di risolvere si ripropongono tali e quali, nulla garantendo che il corpo sovrano dia voce alla volonté générale. Ce n’è abbastanza perché a uno sconsolato Rousseau il Contrat appaia ben presto «un libro da rifare».

La volontà «vera»

Nondimeno, quest’opera esplosiva rimane per noi, dopo due secoli e mezzo, insostituibile. Perché? Per almeno due buone ragioni. In primo luogo, proprio questo tormentato percorso rivela che gli interessi particolari sono qui e ora troppo forti perché sia possibile coniugare partecipazione (esercizio dell’autonomia individuale e collettiva) e giustizia sociale. Rousseau vede precocemente un dilemma-base della democrazia borghese: intuisce (sta qui un nesso profondo con Marx) che soltanto dopo che sarà cambiata la struttura sociale (e con essa la configurazione concreta degli interessi) sarà possibile produrre una forma politica realmente democratica. Sino a quel momento, la politica potrà tutt’al più ridurre i contraccolpi distruttivi del rapporto sociale capitalistico. Col senno di poi, comprendiamo che Rousseau affida, inconsapevolmente, questo insegnamento al Contrat social. Il quale è, per tale ragione, qualcosa di più di un classico del pensiero democratico. È anche un antefatto della critica marxiana della politica, una premessa indispensabile della denuncia dell’ideologia democratica che prenderà forma nelle pagine della Judenfrage.

La seconda ragione è sorprendente, forse paradossale. Abbiamo visto che Rousseau abbandona il quadro di riferimento del contrattualismo moderno imponendo alla scelta collettiva vincoli esterni e non negoziabili. Non basta che la decisione sia partecipata (formalmente democratica), dev’essere anche giusta: promuovere la solidarietà, la coesione, la giustizia sociale, l’uguaglianza, insomma l’interesse generale. Con ciò, a guardar bene, il Contrat non si limita a congedarsi dal contrattualismo, apre la strada – implicitamente – alla più complessa strategia discorsiva che di lì a poco (nel corso del XIX secolo) darà avvio alla ricerca teorica del costituzionalismo moderno, la cui ratio consiste nel distinguere tra gli orientamenti immediati delle assemblee legislative (non di rado condizionati da poteri forti) e la sua volontà «vera» – generale – in quanto frutto dell’esperienza storica di lungo periodo.

Perché questo è sorprendente, perché è paradossale? Perché la discussione sull’opera di Rousseau è andata perlopiù in tutt’altra direzione. Già all’indomani della Rivoluzione francese, e a maggior ragione nel secolo scorso, i suoi avversari di parte liberale gli hanno imputato gravi responsabilità, leggendo nel Contrat – in particolare nella teoria della volonté générale – un dispositivo liberticida, propedeutico al «totalitarismo». Ma a dimostrare che si tratta di accuse insensate basterebbe la sdegnosa risposta che Rousseau dette ai fisiocratici che speravano di arruolarlo tra i fautori del cosiddetto «dispotismo illuminato». No grazie, ribatté: o una collettività trova da sé la strada verso la giustizia, oppure «tutto è perduto»: niente e nessuno autorizza vie di fuga verso il leviatano di Hobbes.

Lezioni di cautela

E forse qui troviamo una terza ragione per non smettere di studiare la politica di Rousseau. La storia della fortuna del suo capolavoro ci insegna anche la distanza critica, la cautela, un po’ di sana diffidenza nei confronti della vulgata storiografica, che – per citare ancora Althusser – è parte della lotta di classe. Demonizzare Rousseau (come Hegel, come la «filosofia classica tedesca») serve a criminalizzare l’intera storia delle rivoluzioni moderne, dal 1789 al 1917 e oltre. Anche quando si tratta di filosofia, la storia è scritta perlopiù dai vincitori, che impongono le loro ragioni, negazioni e rimozioni.

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/9Maggio a Firenze/ Contro l’Europa di Monti, Draghi e Barroso: Contestiamoli!

Il 9 e il 10 maggio a Palazzo Vecchio si terrà una conferenza intitolata “The state of the Union” sulla situazione atttuale dell’Unione Europea. Fra gli altri, interverranno José Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea, Mario Monti, nostro attuale primo ministro, Montezemolo e gli a.d. di ENI ed ENEL .
“E noi?” Ancora una volta non veniamo chiamati in causa, e subiamo le conseguenze delle decisioni di questi signori. L’Europa unita, il sogno delle generazioni che hanno visto la guerra, si è trasformato in un incubo. Il vero volto dell’Unione Europea si sta mostrando nelle politiche di austerity imposte dai poteri forti. Tramite il ricatto del pagamento del debito, è in atto un vero e proprio saccheggio ai danni dei cittadini europei, che mostra ogni giorno i suoi frutti. I governi dei paesi che non tengono il passo vengono rimpiazzati da uomini di fiducia, non eletti democraticamente: Papademos in Grecia, Monti in Italia.
NON LASCIAMO CHE IL LORO TREATRINO SI SVOLGA SENZA CHE NESSUNO GLI FACCIA CAPIRE CHE A FIRENZE NON SONO I BENVENUTI!

Mercoledì 9 alle 17.30 in piazza dell’Unità (zona Santa Maria Novella) per una manifestazione che contesti frontalmente il Governo Monti e l’Unione Europea dei padroni e delle banche, PEOPLE OF EUROPE, RISE UP!

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MANIFESTAZIONE REGIONALE PER LA DIFESA DEL TERRITORIO E DELLA SALUTE PER DIRE BASTA ALL’INCENERIMENTO DEI RIFIUTI!

Come Collettivo aderiamo e parteciperemo al corteo di sabato prossimo. Invitiamo tutti a partecipare

5 MAGGIO, FIRENZE, ORE 15:00
INGRESSO FORTEZZA
(Piazza Bambini e Bambine di Beslan)

LA GESTIONE DEI RIFIUTI PASSA DALLE NOSTRE MANI !!

I RIFIUTI POSSIAMO GESTIRLI IN MODO PIU’ INTELLIGENTE!!
– RIDUCENDO
– RIUTILIZZANDO
– RICICLANDO
– RECUPERANDO
– RIPROGETTANDO

COME POSSIAMO PENSARE CHE BRUCIARE RIFIUTI SIA LA SOLUZIONE A TUTTI I NOSTRI PROBLEMI?

scendi anche tu in piazza il 5 maggio
per la difesa dei beni comuni

DICIAMO NO
al nuovo impianto d’incenerimento di Case Passerini (Sesto Fiorentino ), di Testi (Greve in Chianti), Selvapiana (Pontassieve) e all’ampliamento dell’impianto di Montale

DICIAMO SI
ad un distretto della riprogettazione e del riciclaggio, per :
– la difesa del territorio e della salute
– creare nuovi posti di lavoro
– creare un economia sostenibile attraverso la gestione dei rifiuti

Manifestazione promossa dal: Coordinamento Ato Centro Fi-Po-Pt

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