Ad un’anno dall’assemblea di movimento fiorentina, ri-pubblichiamo un docuento utile al prossimo UNI 10+10, il forum internazionale del mondo della formazione
Università e Precarietà.
Abbiamo ritenuto importante analizzare insieme le riforme nei campi del diritto del lavoro e di quello della formazione, soffermandoci soprattutto sulle riforme universitarie. Perchè tutto ciò? Innanzitutto perchè i due processi di controriforma, più avanti spiegheremo perchè utilizziamo questo termine, sono proceduti contemporaneamente: il pacchetto Treu risale infatti al ’92 ed è il primo atto del processo di precarizzazione del mondo del lavoro, la Ruberti lo precede invece di due anni, anticipando di ben nove anni il Processo di Bologna.
Secondariamente, perchè è fondamentale riuscire a comprendere la visione d’insieme che individua le radici profonde del rapporto fra formazione e divisione del lavoro della società post-moderna.
Tutte queste riforme non sono certo opera di una banda di incompetenti, come spesso si è detto di Gelmini & co, ma sono determinati da soggettività operanti nella società, nella politica e nella storia.
Senza fare una eccessiva cronistoria delle riforme che dall’Università d’élite hanno portato alla formazione dell’Università di massa e poi all’Università “di corsa”, vorremmo porre l’accento su ciò che ci permette di definire controriforme i provvedimenti che in questi venti anni hanno costruito l’università per come la conosciamo noi. Se questo processo di ristrutturazione del sistema formativo avviene per la volontà delle classi dirigenti, l’università di massa e le conquiste sindacali come il contratto nazionale e l’articolo 18, sono state ottenute dalla forza dei movimenti operai e studenteschi, producendo o acuendo, soprattutto grazie alla conquista del libero accesso al più alto livello formativo, contraddizioni interne alla società capitalista. Il processo di ristrutturazione appare quindi come un “sistemare le cose” da parte della classe dominante, risolvendo a proprio favore le contraddizioni emerse.
La contraddizione principale sollevata dalla massificazione della formazione risiede nel fatto che l’Università, fin dai tempi della sua nascita, è stata il luogo di riproduzione della classe dirigente e dell’ideologia dominante, mentre con la liberalizzazione degli accessi, l’abbassamento delle tasse e l’istituzione di borse di studio la popolazione studentesca è cresciuta ben al di sopra del fabbisogno della classe egemone, ma soprattutto lo status stesso dell’Università si è trasformato: dagli anni ’60 l’Università diventa uno strumento di mobilità sociale, un luogo di produzione di sapere universale e critico, divenendo quindi epicentro di rivendicazione di diritti, di emancipazione e di liberazione.
Questa contraddizione oltre che costosa è diventata nociva per il sistema stesso, poiché permetteva non solo la critica ad esso, ma addirittura l’elaborazione di sistemi alternativi.
studente-cliente e studente-merce
In un sistema dove ogni aspetto della vita diventa commercializzabile, anche la formazione diventa ben presto un servizio e non più un diritto: diritto di formarsi, per lo studente; diritto di produrre cultura e benessere, per la società.
In questo contesto si delineano le premesse per cui anche lo studente stesso, al momento del pagamento della tariffa, si aspetta di ricevere un servizio all’altezza.
Ma molto più interessante e complesso è il processo che riguarda l’altro aspetto del nuovo studente di massa, quello di oggetto-merce.
La riforma Ruberti è preceduta da ben due tentativi di riforma del sistema universitario (Gui nel ’68, Malfatti nel ’77) molto simili a quest’ultima ed alla Zecchino-Berlinguer, tentativi di risolvere le contraddizioni sopracitate sfruttando a proprio favore le richieste del movimento per poter adattare il ciclo formativo alle nuove esigenze del mercato per produrre forza lavoro qualificata ma soprattutto precaria.
Se le prime si infrangono contro la forza dei movimenti sociali, negli anni ’90 il tentativo riesce ed apre le porte alla costruzione della fabbrica di precari: l’autonomia finanziaria e didattica, i due livelli di laurea (triennale più magistrale), il sistema di crediti, il passaggio dell’università dal welfare al mercato… rispondono tutti alle nuove esigenze del sistema produttivo: l’Università deve divenire, nel primo livello triennale, fabbrica di forza lavoro qualificata per i nuovi mestieri della società della rivoluzione tecnologica; e nei livelli successivi, magistrale e dottorato, deve riprodurre le classi dirigenti necessarie alla riproduzione dell’ideologia e del sistema vigente.
Sia rendendo flessibile e frammentata, liquida, la nuova soggettività lavoratrice (il lavoratore precario) sia strutturando la formazione in stile taylorista (frammentazione dei corsi in ristretti campi di studio e tempi brevi, contabilizzazione del sapere e del tempo di studio, aumento del numero di esami sul breve periodo..) si crea una comune impossibilità di comprendere la totalità dei meccanismi del sistema: sia per i contenuti parziali appresi durante la formazione, sia per la frenesia della vita del “precario in formazione” (termine coniato dai compagni dei collettivi romani redattori del testo “Studiare con Lentezza”).
Questa condizione rende impossibile una critica al sistema, sia per l’impossibilità di “vedere l’insieme”, sia per la ricattabilità che ne consegue, sia per la necessità di accettare le regole del gioco per potersi far strada.
Il meccanismo dei due livelli di studio (uno per la produzione di forza lavoro, uno per la riproduzione sociale), si scontra però con un tendenziale rallentamento dell’economia che va avanti da quasi tre decenni e che posticipa continuamente l’immissione nel mercato del lavoro dei giovani, inceppando il meccanismo dei due livelli.
Nasce qui l’esigenza dei blocchi all’accesso, funzionali a disincentivare gli studenti delle fasce di reddito più basse dal proseguire gli studi, tendando quindi di ricreare quel meccanismo “ad imbuto” dell’Università d’élite.
Questo difetto nel 3+ 2 nasce dalla speranza di chi decide di continuare gli studi di avere poi la possibilità, grazie ad un curriculum ricco di titoli di studio, master e corsi di formazione, di riuscire ad avere più successo dei colleghi una volta arrivato il momento di immettersi nella giungla del mercato del lavoro. Speranza creata dall’ideologia dominante, peraltro.
Quest’ideologia crea l’illusione che nella società attuale, la società della conoscenza successiva alla rivoluzione tecnologica degli anni ’80, vi sia un alto fabbisogno di forza lavoro altamente qualificata, dinamica e flessibile, e che grazie ad un percorso di studi si possa raggiungere alti standard lavorativi e salariali. Niente di più falso. Ciò che hanno prodotto anni di “modernizzazione” del mercato del lavoro non sono stato altro che precarizzazione e diminuzione dei salari medi. Oltre che una costante insicurezza del futuro, che porta all’accettazione di qualsiasi lavoro “tanto prima o poi troverò qualcosa di meglio”.
I dati dell’occupabilità dei laureati dell’Università riformata smentiscono ogni speranza in tal senso: il tasso di disoccupazione dei laureati è del 21,9%, il 61% degli occupati ottiene contratti atipici e/o a tempo determinato, moltissimi dei quali ottengono lavori che non richiedono (se non solo formalmente) la laurea. Le percentuali di occupazione in ambito differente da quello del percorso di studi sono altissime, soprattutto per i laureati delle facoltà umanistiche o di giurisprudenza. In ogni caso i salari sono in calo costante e si attestano al di sotto dei salari medi (questo vale ancora di più per le laureate donne).
Queste quindi le caratteristiche dello studente come merce prodotta dalla fabbrica-università: come le merci di oggi dev’essere dinamico, avere una conoscenza “just in time”, spendibile ora ma che già domani sarà obsoleta. Egli si ritrova nella condizione di un cellulare o un microonde, fatto per durare quanto basta per generare un profitto. È, in più, prodotto con tempi alienanti in sintonia con i ritmi del lavoro precario: anche le conoscenze che acquisisce sono quantificabili ed oggettivizzabili dai Cfu. Inoltre, sia a scuola che all’Università si trova ad imparare la disciplina che poi servirà nei luoghi di lavoro: nessun diritto; rigida divisione in gerarchie; nessuna trasparenza e possibilità di partecipazione al tutto, che è e deve restare sempre sfuggente.
saperi in declino e saperi produttivi
Tornando a focalizzare sullo stato dell’Università oggi possiamo constatare due diversi tipi di politiche in base al campo di studi: da un lato lo smantellamento dei saperi umanistici, dall’altro la governance dei saperi tecnico-scientifici.
I primi sono vittima da ormai due decenni di un declino difficilmente arrestabile se non con una vera e propria rivoluzione delle politiche in campo universitario. Blocchi del turn-over, taglio dei fondi, parcellizzazione dei corsi, moltiplicazione dei corsi professionalizzanti ed un calcolo del “merito” schiacciato sulla produttività quantitativa hanno prodotto nelle Facoltà ed Accademie umanistiche una liceizzazione buona solo alla costruzione di un sapere generico o eccessivamente specialistico. Tutto ciò avviene perchè gli studi, se interdisciplinari e approfonditi, producono quella conoscenza della realtà tale da poter criticare l’esistente. La cosiddetta Bildung è nociva per il sistema, e per di più non è funzionale al profitto, perchè non spendibile, anzi nella dimensione di massa essa è un costo eccessivo. Dev’essere quindi smantellata.
Per quanto riguarda i saperi tecnico-scientifici il discorso è differente: il mercato ha bisogno di luoghi dove formare nuovi addetti ai lavori, ma anche dove poter fare ricerca per migliorare il parco macchine, quindi sarà in queste facoltà che andranno la maggior parte dei finanziamenti, sia pubblici che privati.
Su questo punto la Regione si fa tramite degli interessi privati, basti pensare ai finanziamenti stanziati per i dottorati e le borse di studio qui a Firenze: la quasi totalità dei fondi regionali finisce in ambito ingegneristico, farmaceutico e medico.
Allo scopo di piegare la ricerca universitaria agli interessi privati nascono anche figure come quelle dei ricercatori e dei dottorandi executive-per l’industria, come se non bastasse avere permesso ai privati di entrare dei Consigli d’amministrazione degli Atenei.
Queste figure, insieme ai tirocini, sono funzionali all’abbassamento degli standard lavorativi, infatti non sono altro che forza lavoro a basso costo.
Ma c’è di più, insieme alla sostituzione delle borse di studio con i prestiti d’onore, tirocini e ricerca executive diventano comodi strumenti di cooptazione: pur di ripagare il debito contratto, pur di fare carriera, si accetta di lavorare e fare ricerca producendo ciò che ci viene richiesto, senza spazio per l’innovazione né tantomeno per la critica.
rivoltare la precarietà
Il quadro delineato è abbastanza chiaro: abbiamo di fronte un’Università dove i saperi sono standardizzati e incardinati negli argini dell’ideologia dominante (questo avviene ancor di più con l’introduzione dell’ordinamento 270, dove intere coorti di immatricolati sono costretti a seguire gli stessi corsi con minime possibilità di scelta e di personalizzazione dei percorsi di studio), un’Università che, a partire dal Processo di Bologna, subisce un processo di razionalizzazione e di uniformamento a livello europeo sia dei contenuti; sia delle procedure di contabilizzazione dei saperi e di valutazione, con lo scopo strategico di staccare i percorso formativo dall’ambito del welfare a quello del mercato; sia dei costi, tramite tagli dei fondi, aumento delle tasse, esternalizzazioni, privatizzazioni.
In questo contesto si viene a produrre una soggettività frantumata, dai contorni opachi, incapace di comprendere la totalità dei meccanismi del sistema, sia per la preparazione generica e specialistica e non globale e approfondita, sia per la frenesia dei ritmi di studio (come si trova scritto su un muro di Novoli “non ho tempo per studiare, devo dare esami”).
Per questo per organizzare il soggetto di cui facciamo parte, inafferabile e incomprensibile per quei partiti e sindacati impermeabili alle voci dei movimenti e delle marginalità sociali, dobbiamo partire dall’analisi di ciò che ci sta intorno e che ci opprime: abolire i tempi del 3 + 2 dev’essere il nostro primo obbiettivo, “cambiare le lancette dell’orologio e riappropriarsi della possibilità di studiare con lentezza”; rendere all’Università il ruolo che noi le rivendichiamo di produttrice di cultura interdisciplinare e viva, ossia utile per soddisfare i bisogni collettivi della società che la circonda; mettere in relazione le varie parti dell’Università in maniera orizzontale e non più gerarchica, non riproducendo anche all’interno dei nostri luoghi di studio le dinamiche disgreganti che viviamo ogni giorno.
Scardinare tutti gli aspetti dell’oppressione è il nostro strumento di lotta più efficace, individuarli la nostra prima battaglia.
L’assemblea di Movimento tenutasi Martedì 29 Novembre nello Spazio autogestito di Novoli, in linea con la pars destruens dell’analisi sviluppata nei paragrafi precedenti, sono state elencate alcune rivendicazioni che tendono all’inversione della tendenza alla frammentarietà degli insegnamenti ed alla moltiplicazione di corsi ed esami: forti della critica all’Università del 3 + 2, affermiamo che i corsi di 30 ore devono essere accorpati e spalmati in periodi più lunghi, al fine di poter metabolizzare ed approfondire gli argomenti affrontati. Su questo punto, sempre al fine di permettere lo sviluppo di una conoscenza non parziale e critica, sarebbe opportuno costruire veri e propri controcorsi e seminari autogestiti (in modalità da definire) che permettano di arricchire l’offerta formativa con programmi che cerchino il più possibile l’interdisciplinarità ed il legame con i bisogni sociali.
Un punto doppiamente importante è quello che riguarda i tirocini: è fondamentale che essi siano facoltativi, ed in più devono essere vere occasioni formative e non puro sfruttamento di forza lavoro non retribuita.
La proposta più interessante che è stata elaborata è quella di informare i tirocinanti (recandosi nelle aziende convenzionate con l’Ateneo per azioni di volantinaggio e informazione) di ciò che realmente è il tirocinio ed il progetto “Giovani sì”, progetto che dirotta alle imprese denaro pubblico, palesando il ruolo di garanti degli interessi privati delle istituzioni regionali e statali. Inoltre potremmo realizzare una vera e propria inchiesta sul lavoro svolto presso le ditte, mantenendo i contatti con tirocinanti e stagisti al fine di costruire una qualche forma di organizzazione degli stessi. I lavoratori precari infatti hanno grosse difficoltà nel potersi mettere in contatto gli uni con gli altri a causa della pluralità delle forme contrattuali, della temporanea e precaria permanenza nei luoghi di lavoro e dell’assenza di sindacati capaci di comprendere ed intercettare i loro bisogni.
Per quanto riguarda il diritto allo studio è stato proposto che l’Ateneo richieda obbligatoriamente la presentazione dell’ISEE, al fine di lottare contro l’evasione fiscale (fenomeno diffuso non certo nella fascia dei lavoratori dipendenti) e per poter elaborare una nuova forma di tassazione più progressiva ed equa.
È stato poi sollevata l’importanza dell’eliminazione della frequenza obbligatoria, forma discriminatoria verso gli studenti lavoratori. Altro forma di discriminazione è quella del bonus per la produttività: essa non è certo uno strumento meritocratico (si premia la quantità, non la qualità), ed in più se uno studente lavora è proprio per necessità economiche, sembra assurdo premiare chi dà più crediti, cioè chi può permettersi di avere più tempo per studiare!
È stata affrontata una difficile riflessione sulla costruzione di una coscienza della soggettività studentesca e precaria, comprendendo la difficoltà di ovviare ad anni di tendenziale indottrinamento al pensiero unico ed alla disciplina. Abbiamo preso atto della necessità di trovare forme di coinvolgimento e comunicazione del nostro bagaglio culturale e politico al fine di permettere la comprensione della situazione sociale anche agli studenti meno politicizzati, così da lottare contro il disinteresse e la disillusione dilagante.
Le università ubbliche nei territori che le accolgono sono divenute dei corpi estranei alle vocazioni territoriali, alla produttività ed alla ricerca integrata alla economia locale.
Non si sono dimostrate volano per lo sviluppo ma solo appendice costosa e dannosa.
L’unigversità pubblica è autoreferenziale e nutilmente costosa.
L’università generalista ha i giorni contati
L’università della ricerca è il solo futuro possibile.
E se le università non producono ricerca utile alla eocnomia reale, possiamo chiuderle, senzadubbiamente.
http://www.ilcittadinox.com/blog/universita-produttivita-una-difficile-conciliazione.html
Gustavo Gesualdo
alias
Il Cittadino X