Crisi
“E tu non piangi e non ridi / e vivi come se niente fosse
C’è crisi dappertutto / dappertutto c’è crisi” (Bugo, 2008)
Ormai è universalmente riconosciuto, come purtroppo socialmente accettato, lo stato di crisi. Una crisi che porta avanti, economicamente, i suoi effetti da almeno 5 anni, ma che ha radici ben più profonde: dalle crisi finanziare del 1974/75, alle privatizzazioni e deregolamentazioni dei decenni successivi fino ad oggi.
Una crisi economica che si accompagna però ad un’importante sorella, la crisi ideologica. Quest’ultima è, da un lato, effetto della cosiddetta morte delle ideologie novecentesche, e dall’altro causata dallo spaesamento che ne deriva. Ci spieghiamo meglio: con il trionfo dell’ideologia del libero mercato, che anche nelle sinistre europee la fa da padrona, ci troviamo davanti ad un dibattito pubblico appiattito sulla tecnica economica e politica, senza possibilità di porci la questione se i principi sulla quale questa è fondata siano davvero corretti e neutrali e di conseguenza negando la possibilità di cambiamento. La nostra opinione è che di corretto e naturale in questo sistema non ci sia nulla ed anzi, i fatti ci fanno intuire che non siamo gli unici a pensarla così, tanto che dalla Grecia alla Spagna, passando per Portogallo e, in un certo qual modo, dall’Italia, i movimenti contro l’austerity liberista irrompono nella scena pubblica. In questo senso la crisi dell’ideologia dirompe: il pensiero dominante è dato come unica realtà possibile, nonostante tale realtà dimostri chiaramente il suo palese fallimento e tutta la sua insostenibilità
Portando il nostro ragionamento sul piano universitario, la diagnosi non si discosta di molto. L’università, dai primi anni ’90, subisce un progressivo attacco alla sua natura di strumento di emancipazione individuale e produttore di sapere collettivo
Con gli anni 2000 questo processo subisce un’ulteriore accelerazione fino allo stato attuale che ne è l’esito: l’università è diventata una istituzione senza spazi di democrazia interna, gestita da baronie e potentati locali, con forti ingerenze del mondo produttivo (lo stesso che ha prodotto la crisi di cui sopra), culturalmente appiattita, classista e socialmente inutile, come dimostrano le indagini sull’occupabilità dei laureati e l’ininfluenza della ricerca sul dibattito pubblico.
Tutto ciò avviene col beneplacito della classe docente, la quale ha la forte responsabilità di non porre dubbi sulla giustezza delle basi dell’ideologia liberista che ha trasformato l’università in questa fabbrica di precariato (anzi, oramai fabbrica di disoccupat*).
Riappropriazione
In questo panorama apparentemente desolante non ci restano che due vie, l’accettazione o la risposta. Noi che non abbiamo mai accettato proposte al ribasso, anche a costo di sentirci dire che “non ci va bene niente”, vogliamo rispondere a questa situazione nel modo più forte ed efficace possibile, “Sì, è vero, non ci va bene niente. Niente di tutto ciò: né l’università al servizio del profitto, né il futuro di ricatto, né lo stato di debito perenne”.
Ma come si fa? Proponiamo un ragionamento in divenire, una soluzione non data né finita, ma una pratica: la riappropriazione.
Se il dibattito sulla gestione della cosa pubblica è appiattito su “privato sì/ privato no”, noi ci proponiamo di indagare come questo privato no sia attuabile. L’ideologia del libero mercato è all’origine di questa crisi e non può esserne soluzione, ma quale pubblico vogliamo?
Riteniamo che non basti volere ri-pubblicizzare i beni comuni, magari dandoli in mano a quei politici che a dire di tutt* sarebbero una casta di ladri, ma che si debba ripartire dalla sorgente, cioè la partecipazione di ognuno ed ognuna alle decisioni collettive. Per questo ci siamo battuti e battute per l’acqua bene comune
Conflitto
Da sempre le istituzioni accademiche sono uno degli spazi del conflitto all’interno dell’università. Infatti il conflitto dentro e contro questa università non si è sviluppato solo con le punte più evidenti di attrito tra chi lotta per l’università di massa, libera e gratuita – le occupazioni, le manifestazioni, gli scioperi – e chi invece l’ha governata fin’ora in senso opposto, ma anche grazie a conquiste parziali e dinamiche quotidiane. I movimenti post-’68 ci hanno consegnato una serie di spazi di democrazia dentro i Consigli di Facoltà e d’Ateneo, che però reggevano sulle deboli gambe della rappresentanza, e difatti hanno dimostrato la loro scarsa efficacia.
Oggi dobbiamo immaginarci come si possa, da questa università, costruirne un’altra, basata sul comune. Quali spazi di conflitto si aprono quando vogliamo mettere bocca sulle scelte politiche di un ateneo, quando vogliamo decidere quali voci di bilancio sono o non sono sostenibili (non solo economicamente), quando ridiscutiamo le funzioni della ricerca accademica.
Non possiamo limitarci alla rivendicazione d’una università pubblica, dobbiamo capire quale sia il pubblico che immaginiamo, che si parli di università, beni comuni in genere o addirittura politiche economiche e finanza pubblica.
Auditoria universitaria
“Audit: Attività atta a determinare tramite indagine l’adeguatezza ed aderenza di un processo o organizzazione a stabilite procedure ed altri requisiti funzionali e a verificarne l’applicazione.” Definizione di Monica Dongili
Uno dei mezzi che immaginiamo quando pensiamo ad una riconversione del pubblico è l’audit. Questo è uno strumento che nasce come pratica politica in quei paesi schiacciati dall’austerity e che, grazie a mobilitazioni ampie e radicali, hanno individuato le reali cause dell’indebitamento dello stato fino a ripudiare tutto o parte del debito. La cosa più interessante è la trasposizione locale di questa pratica, che oltre i meccanismo di delega e che si fa, da un lato azione collettiva, dall’altro indagine sullo stato di cose.
La combinazione di questi due aspetti nella pratica di lotta dei collettivi può essere utile a radicare processi di partecipazione e possibilità di critica alla gestione degli Atenei, evidenziando come ci sia una matrice politica nelle scelte che invece, oggi, ci vengono “vendute” come oggettive e necessarie. Dai tagli al Diritto allo Studio al finanziamento da parte di privati per borse di studio vincolate a progetti di ricerca profittabili e brevettabili. Cominciamo ad attivarci per allargare il campo della nostra critica non solo agli aspetti che risultano a valle di questa condizione, ma andiamo a monte: mettiamo in discussione come i soldi vengono spesi , come le decisioni vengono prese, chi si favorisce e perché.
Questo è un contributo per una riflessione ed un dibattito, sui beni comuni, sull’università, sulle pratiche da poter attuare per non accettare lo stato (desolante) di cose.