Sono passati ormai 3 mesi dalle dimissioni di Berlusconi e sono lontani gli echi di chi festeggiava in piazza una rinnovata “liberazione”. Da allora i titoli dei giornali e le dichiarazioni fuoriuscite dai sempre più frequenti Summit europei sono sempre le stesse: la Grecia deve velocemente varare le sue manovre di austerity, ancora ed ancora, finché i mercati non saranno sazi, l’Italia deve “modernizzare” il suo mercato del lavoro, privatizzare il privatizzabile e tagliare la spesa pubblica… che monotonia!
Le politiche proposte da Monti ed appoggiate dal Parlamento, che oramai si esprime in un coro tendenzialmente unisono, dimostrano la subalternità alla Bce, all’Ue ed ai potentati finanziari, ed infatti l’affermazione che “siamo ostaggi dei mercati” ricorre sempre più frequentemente anche nelle conversazioni di chi ha gioito per l’arrivo del sedicente governo tecnico.
C’è voluta una riforma delle pensioni peggiore di quella del Governo Berlusconi, passata sotto il silenzio delle opposizioni e osteggiata timidamente dai sindacati che hanno risposto con uno sciopero di sole 3 ore (che grazie alla spinta della base in molti settori e Regioni è diventato di 8 ore). Abbiamo assistito all’umiliazione della volontà popolare che si era espressa chiaramente contro la privatizzazione dei beni comuni, tramite il “pacchetto liberalizzazioni” che peggiora le già negative misure del precedente Governo. Abbiamo infine dovuto ascoltare un Vice-Ministro raccomandato chiamare “sfigati” i fuoricorso, o comunque quelli che si iscrivono tardi all’Università, il Presidente del Consiglio “monotoni” quelli che pretendono un lavoro sicuro ed il Ministro Fornero chiamare “tabù” il diritto di non essere licenziato senza giusta causa.
Se un tempo chi sosteneva che la caduta di Berlusconi per le spinte dall’alto non avrebbe portato niente di buono, veniva tacciato di berlusconista o incontentabile, adesso tutto ciò diventa evidente anche per i democratici più miopi.
Ma mentre in Grecia i sindacati scioperano contro le politiche di austerity imposte dalla troika, in Italia i sindacati trattano col Governo sull’articolo 18, dimostrando di non avere nessuna solidarietà coi lavoratori greci, che sono sulla stessa barca di quelli italiani, ma soprattutto di non essere capaci di opporsi alla visione dominante sull’uscita dalla crisi, proponendo una visione globale per una vera riforma del lavoro che combatta la precarietà.
Il dibattito politico sul mercato del lavoro per come viene affrontato da media mainstream e dai partiti di palazzo si è cristallizzato proprio sul tema dell’articolo 18, non solo perchè esso dovrebbe essere un freno alla produttività ed alla competitività, ma addirittura perché una sua modifica o cancellazione rappresenterebbe una misura contro la precarietà stessa.
Ora, un paio di cifre preliminari sono necessarie per capire il contesto in cui si muove questo dibattito:
La disoccupazione giovanile in Italia supera la soglia del 30% (un tasso da paese da “primavera araba”) e fra gli occupati solo il 18% riesce ad ottenere un contratto a tempo indeterminato coperto dall’art. 18. Ma la precarietà non è una questione solo giovanile. Se è vero che i contratti atipici furono propagandati come la cura che avrebbe reso più agile l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, col passare del tempo la condizione precaria si è estesa anche a lavori considerati sicuri (Pubblica amministrazione, grandi imprese…) ed alle altre fasce di età. Oggi infatti il 50% dei lavoratori a tempo determinato hanno più di 30 anni.
La precarietà non è più una questione generazionale, come la vogliono far passare Monti&Co, ma possiamo affermare che i giovani sono stati soltanto le cavie sulle quali sperimentare i contratti atipici: una volta aperta la breccia, la precarietà è stata estesa a quasi tutti i lavoratori dipendenti.
Per questo non possiamo accettare che si ponga la questione della lotta contro precarietà e disoccupazione in termini di conflitto né generazionale, né fra “privilegiati” e “non garantiti”: avere garanzie sul luogo di lavoro è un diritto, e questi diritti vanno estesi a chi non li ha, non spalmarli! Se c’è qualcosa che deve essere spalmata questa è la ricchezza, oggi più di ieri concentrata nelle mani di chi si arricchisce anche e soprattutto in tempo di crisi.
Cancellare l’articolo 18, magari affiancando questa misura ad un “contratto unico a tempo indeterminato”, significherebbe soltanto estendere la condizione precaria a tutte e tutti i lavoratori e le lavoratrici.
Infatti, sebbene l’articolo 18 copra oggi solo una minoranza di lavoratori e lavoratrici, esso rafforza la posizione di qualunque lavoratore faccia vertenza in caso di licenziamento; per questo rifiutare di fare passi indietro su di esso non è solo il simbolo del rifiuto della ricetta neoliberista, ma una battaglia fondamentale per tutti i lavoratori e le lavoratrici, siano essi precari o no.
Non dobbiamo però concepire la lotta sul tema del lavoro come una semplice resistenza sugli ultimi diritti rimasti: dobbiamo reclamarne di nuovi, contrapporre una visione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici che riesca a superare la precarietà, perché essa non è solo una questione di soldi o di mutui non concessi; la precarietà è una condizione sociale di sottomissione al ricatto, rivoltare questa condizione è un passo necessario per invertire i rapporti di forza e contrattaccare con un’alternativa sociale alla società della crisi.
Collettivo di Lettere e Filosofia* – AteneinRivolta