Solo un’altra rivolta
La cronologia degli eventi della rivolta di questi giorni nel Regno Unito ricorda perfettamente quanto accaduto sei anni fa nelle banlieue francesi: allora, proprio come oggi, la scintilla fu la morte di un ragazzo in seguito ad un inseguimento per un piccolo furto; anche allora, come oggi, la risposta fu esplosiva, dapprima nella periferia della capitale, poi in tutti i centri principali della nazione.
Parigi, Londra, due rivolte metropolitane simbolo degli equilibri instabili della società odierna, ma che vanno ad aggiungersi ad altre caratteristicamente simili: Los Angeles, Atene, Napoli. La metropoli che si configura come un’area dove le contraddizioni si acutizzano creando reazioni spesso inaspettate all’occhio inattento di media e governanti, capaci solo di stigmatizzare i “criminali” e di rispondere con la repressione, gettando benzina sul fuoco.
Sì, benzina sul fuoco, perché è proprio il senso di abbandono da parte dello Stato e della politica che porta chi vive in aree urbane degradate, abbandonate a se stesse perché non incluse nella Londra o nella Parigi da cartolina, ad accumulare ostilità e rabbia per poi esternarle senza limiti quando la misura si fa colma.
La complessità di questi eventi è data non solo dalla molteplicità di input che li animano ma dai soggetti che ne sono protagonisti: giovani, precari, abitanti dei margini della società. Qui sta la loro “differenza in comune”, pur se con caratteristiche diverse in ogni paese, ognuno di essi è simile per le condizioni che ne fanno una soggettività unica, condizioni che portano poi una rivolta nata da un evento apparentemente secondario a divenire simbolo della soggettività stessa: la precarietà. Il fatto che proprio a Londra si sia data una rivolta di questo genere non è emblematico di come siano falsi i miti della Londra capitale della multiculturalità, ma di quanto, piuttosto, l’ingiustizia sociale, in assenza di riferimenti politici, trovi sempre una valvola di sfogo.
Due mesi prima dell’omicidio di Mark Duggan, sul Guardian appariva un articolo che titolava con una domanda profetica “Chi darà voce al precariato?”, articolo che ha suscitato polemiche e critiche, ma che poneva una domanda evidentemente ben posta. La risposta adesso è stata data, la questione sta nell’ascoltarla.
Se ci fermassimo all’analisi dei fatti di Londra soltanto attraverso quanto si legge dai giornali o dalle dichiarazioni del governo inglese, la lettura sarebbe tanto semplice quanto errata: bande di criminali che sfruttano un avvenimento drammatico in maniera strumentale, per commettere atti di vandalismo e saccheggiare negozi. Si leggono però anche molte opinioni “da sinistra” simili a quelle sopracitate: si tratta di una rivolta priva di caratteri politici, un’altra rivolta senza una vera coscienza capace di portare istanze o rivendicazioni, paragonabile semmai al fenomeno ultras o al fascino per la delinquenza derivante dalla cultura hip-hop americana. Parere approssimativo, anche se quest’ultima caratteristica è più che vera: odio per lo Stato, sentimento di abbandono da parte della società ed assenza di prospettive per il futuro vanno ad intrecciarsi a quella che è l’influenza della cultura dominante: dal consumismo tipico del capitalismo occidentale allo status symbol del cantante hip-hop di successo, circondato da belle donne ed auto di lusso.
Questo mix è proprio ciò che rende questi eventi ad essere, da un lato, utili a mettere in evidenza le contraddizioni che il sistema capitalista sta portando sempre più all’esasperazione, dall’altro però sono potenzialmente pericolose, sia perché sono occasione per legittimare una stretta repressiva, sia perché la frammentazione sociale e l’assenza di un immaginario costruttivo che li hanno portato in piazza possono anche portare a derive reazionarie.
Da qui nasce la necessità di leggere queste rivolte non come pure esplosioni di rabbia, ma come eventi prepolitici, che si legano necessariamente alla crisi economica ed alle decine di rivolte che in tutto il mondo si stanno riproducendo, tanto da non poter più rintracciare la scintilla originale: la crisi greca, la primavera nord-africana ed i movimenti studenteschi contro il processo di Bologna… possiamo procedere a ritroso fino a Genova 2001 o anche oltre.
Perché prepolitici? Perché se dall’essere una rivolta contro un’ingiustizia sociale, l’omicidio di Duggan e l’affossamento delle responsabilità da parte della polizia, ben presto si è trasformata in un’offensiva contro l’inaccessibilità dei beni “di lusso”, ciò non significa che abbia cessato di essere sociale, anzi! Qui è necessario soffermarsi per capire cosa siano questi beni di lusso. I moti ottocenteschi ai quali si tende paragonare questi eventi erano “rivolte del pane”, nascevano da bisogni primari di lavoratori che concepivano come un lusso addirittura possedere un vero tetto sopra la testa. Oggigiorno scarpe, abiti e strumenti tecnologici non appaiono come beni di lusso, ma beni di prima necessità, soprattutto per chi è cresciuto negli anni novanta, ossia dopo l’avvento di internet.
Assaltare negozi per appropriarsi di ciò che non si può possedere, ma che ogni giorno ci viene sbattuto in faccia in tv e nei cartelloni pubblicitari, è una forma di lotta contro un’alienazione simile a quella dei lavoratori ottocenteschi che si riappropriavano del pane che producevano o delle fabbriche nelle quali lavoravano.
Compresa l’importanza di queste rivolte sociali, ma non ancora politiche, bisogna connetterle alla dimensione globale della crisi e delle resistenze che ad essa, o meglio, a chi la crisi l’ha creata, si oppongono, per evitare che restino un semplice sfogo della generazione “no future”, come fossero una nuova ondata punk.
Per questo non dobbiamo dare ascolto alle testate inglesi che si sono apprestate a negare l’importanza politica della rivolta, scongiurando qualsiasi possibilità che da quest’ultima possano nascere delle rivendicazioni sociali. Se è vero che esplicitamente i rioters non avanzano richieste, le loro pratiche, le loro motivazioni lo fanno a gran voce!
Trovare il bandolo della matassa è compito arduo, ma non dobbiamo cadere nel tranello di chi, per malafede o per miopia, non coglie le nuove forme dell’inafferrabile soggettività che vive il precariato; la frammentazione è la sua, la nostra, debolezza, ma in questi mesi stiamo sperimentandone la forza, dalla Grecia alla Spagna, adesso fino nel Regno Unito, il nostro turno si avvicina.
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