La nostra militanza e il nostro impegno nell’università e nei movimenti sociali in genere è nata, o è stata rinnovata, dal movimento dell’Onda di due anni e mezzo fa. Per iniziare una riflessione sull’organizzazione delle lotte e dei movimenti studenteschi ci sembra d’obbligo partire da questa, esaltante ma contraddittoria, esperienza.
Quell’insorgenza seppe per qualche mese squarciare l’asfittica atmosfera di rassegnazione e sconfitta che impregnava da qualche anno i nostri atenei come le nostre piazze; rimise all’ordine del giorno la gioia dell’impegno e della lotta collettiva; mise in campo numeri considerevoli, ma sicuramente peccò di inesperienza e ingenuità.
In pochi mesi consumò le sue energie, ma al tempo stesso seppe sviluppare rapidamente pratiche diversissime, tanto diverse da apparire alla lunga inconciliabili: gli stessi militanti, spesso alle prime armi e dalla politicizzazione alquanto approssimativa, passavano nell’arco di poche ore dalle lezioni in piazza ai cortei selvaggi, dalle occupazioni e dal confronto con le forze dell’ordine alle grandi sfilate romane. Questa pluralità dissonante delle pratiche corrispondeva anche a ideologie, parole d’ordine e, verrebbe da dire, concezioni del mondo altrettanto dissonanti e plurali che popolarono quel momento di impegno collettivo forse confondendosi le une con le altre, ma senza mai amalgamarsi fino in fondo.
Alla base di tutto stava una dialettica fra conflitto e manifestazione del dissenso che non fu mai sanata in quei mesi: non ci furono vincitori e vinti in quel confronto che serpeggiava nei momenti di discussione fra le realtà in lotta, vero e proprio convitato di pietra negli estenuanti momenti assembleari. A sancire la sconfitta di entrambe arrivò troppo presto il declinare della partecipazione e il ritorno alla calma.
Quest’autunno le università sono ridiventate palcoscenico dove inscenare conflitto, ma con modalità, contenuti e parole d’ordine molto differenti rispetto a due anni fa’. Rispetto al passato, per dirla molto sinteticamente, si è avuto sicuramente una minore partecipazione, sia nelle facoltà che negli appuntamenti di piazza, ma anche una maggiore politicizzazione, con assemblee meno sfrangiate e più consapevoli della posta in gioco della riforma Gelmini e anche dei metodi necessari per opporvisi. Per essere ancora più chiari, quest’anno abbiamo avuto cortei con qualche centinaio di partecipanti a Firenze (un dato ridicolo rispetto alle maree di due anni fa), ma anche una consapevolezza incomparabile, un’idea di militanza precisa, una prontezza nell’affrontare la conflittualità (un dato rispetto al quale sarebbero le esperienze di due anni fa ad apparire ridicole).
Appurato questo aspetto, senza per questo dare giudizi di valore, non crediamo che il confronto fra i due movimenti si possa sbrigare in queste quattro frasi, in questa dicotomia fra bianco e nero, così all’apparenza chiara. Ci sembra invece che questo dato dovrebbe fare riflettere molto. Questo perchè ci pare semplicistico privilegiare o esclusivamente l’aspetto della conflittualità o l’aspetto della partecipazione, come se questi due piani possano procedere separati l’uno dall’altro.
Davvero si può credere che la partecipazione di per sè possa bastare a incidere sulle realta? Davverò si può credere di non alimentare la confusione ideologica facendo marciare accanto senza un chiarimento preliminare le bandiere del merito e dell’uguaglianza? Ma al tempo stesso si può pensare realmente che il conflitto supplisca alla necessaria analisi delle opportunità politiche che ci troviamo ad avere un po’ come un vestito buono per tutte le stagioni? Si può non contemplare il dato della partecipazione perchè orgogliosi della propria intransigenza politica senza capire il problema delle “radici” obbligatorie del conflitto?
Il nostro personale punto di vista è che partecipazione e conflitto non possano essere disgiunti più di un tanto, che siano elementi complementari dell’azione politica. Il conflitto è la manifestazione esteriore dell’azione politica, ciò che dà visibilità e cementa l’appartenenza, ciò che consente il mutamento reale dei rapporti di forza; ma d’altra parte la partecipazione rappresenta le radici dell’azione politica, ciò che consente la sua incisività al di là dell’aspetto meramente testimoniale. Crediamo insomma che il cuore dell’azione politica, almeno per le situazioni in cui ci troviamo ad agire, sia rappresentato proprio dal compromesso, meno al ribasso possibile, fra l’istanza della partecipazione e quella del conflitto; un compromesso che ovviamente porterà a sacrificare qualcosa, ma che consentirà il reale avanzamento delle nostre lotte.
Riteniamo inoltre l’aspetto organizzativo, rappresentato dal collettivo (sia esso universitario, politico o sociale), un elemento centrale per l’economia delle nostre lotte e anche una questione da non nascondere al fine di inseguire chimere orizzontalistiche. Due anni fa ciò che frenò l’Onda fu anche e soprattutto il vizio tutt’italiano di rifiutare acriticamente ogni forma di organizzazione delle lotte, che necessariamente deve contemplare anche forme seppur minime di delega e di votazioni.
Riteniamo il collettivo lo strumento con cui valorizzare al massimo l’unione di radicalità e partecipazione, la “medicina” con cui curare due disturbi ricorrenti, opposti ma simmetrici, all’interno dello spazio politico universitario: per un verso l’isolamento delle tematiche universitarie dal quadro sociale che le circonda e le domina, dall’altra la formazione di nuclei ristretti di militanti politici scarsamente attenti alle possibilità di allargare le lotte agli studenti meno o per niente politicizzati.
Per far sì che sia medicina incisiva però bisogna che il collettivo assuma una natura specifica: una natura che ritrovammo espressa, secondo noi in modo molto efficace, proprio due anni fa in un appello nazionale che alcuni collettivi della Sapienza lanciarono sotto la forma di 12 tesi sull’università. Una delle tesi recitava così:
“11) I collettivi studenteschi: Per portare avanti i processi di sabotaggio della fabbrica è necessario evitare che ad ogni mareggiata si debba ricominciare tutto daccapo: pensiamo che i collettivi siano la miglior forma di organizzazione dal basso che, all’interno di ogni facoltà e ogni ateneo, possano favorire processi di autorganizzazione e di movimento. Per questo pensiamo che si debbano costruire collettivi ovunque, ossia delle strutture studentesche permanenti, orizzontali, democratiche, che diano continuità e solidità al processo di autoriforma dell’università, dotandosi di progettualità e strumenti di lavoro che, a differenza della pura assemblea, vanno oltre le fasi di movimento. Dei luoghi di incontro, discussione, elaborazione e condivisione di bisogni degli studenti e delle studentesse, in grado di affrontare anche il tema spesso rimosso dell’oppressione di genere. Abbiamo bisogno di organizzazioni radicalmente diverse dalle strutture burocratiche spesso rappresentate anche da alcuni sindacati studenteschi; di strutture di base, aperte, con l’unica finalità di costruire partecipazione e movimento, che fondano nella pratica delle assemblee di facoltà il proprio agire, la propria capacità di tendere a momenti di autorganizzazione vera e propria, ossia capaci di cedere totalmente sovranità al movimento e alla sua autorganizzazione nel momento in cui essa si dispiega.” (12 tesi sull’Università)
Crediamo, in altre parole, in collettivi che vivano saldamente dentro l’università, che attraverso vertenze intermedie siano capaci di politicizzare tanti studenti attraverso la costruzione della consapevolezza critica dei rapporti stretti esistenti fra formazione e società, ma che pure si impegnino attivamente e convintamente nelle lotte esterne all’università con un interesse primario per quelle antifasciste, antirazziste e di sostegno ai diritti dei lavoratori. Riteniamo inoltre che i collettivi trovino la propria forza nella loro natura meticcia, nel loro comporsi di studenti provenienti da varie aree politiche, nell’incontrarsi al loro interno fra studenti già politicizzati e studenti per niente politicizzati.
Ciò che è successo durante la mobilitazione dell’autunno/inverno purtroppo ha teso a procedere in una direzione diversa: le iniziative assembleari e i momenti di piazza sebbene denotassero una maggiore coscienza e consapevolezza dei contenuti politici delle questioni hanno visto un calo massiccio della partecipazione; la fiducia e il consenso della massa degli studenti nei confronti dei collettivi sembra in calo (non sono i militanti a tempo pieno a essere in diminuzione, anzi, ma si sta riducendo quello spazio di studenti simpatizzanti nei confronti delle azioni dei gruppi politici); si assiste alla crisi del collettivo di facoltà, necessariamente meno omogeneo politicamente, ma più legato al “territorio”, e al parallelo rafforzamento di formazioni interfacoltà con un profilo identitario più chiaro e una maggiore capacità “politica”.
Riteniamo che le conseguenze di questa tendenza, nel lungo periodo, siano pericolose: i collettivi universitari, che in alcune facoltà già sembrano in sofferenza, numerica e non, rappresentano non soltanto il cuore pulsante delle lotte negli atenei, ma anche una fondamentale riserva di ossigeno per le lotte sociali in genere. La loro scomparsa o la loro trasformazione in soggetti politici tout court spesso scarsamente interagenti con il resto della comunità studentesca ci pare un’eventualità da scongiurare in ogni modo.